Piera Sonnino - Questo è Stato
estratto 6
… Anche i
ricordi dei giorni successivi sono confusi. Dal pagliericcio sul quale ero
distesa scorgevo attraverso i vetri di una finestra pile di casse e divise
kaki, mi arrivava all’orecchio un vociare confuso, rombi di motori sovrastavano
all’improvviso ogni altro rumore, rombi che rimanevano a lungo nella mia mente.
Avevo il corpo dolorante e la febbre altissima. Ero incapace di qualsiasi
movimento e di qualsiasi pensiero. Avvertivo al mio fianco, nella stessa
baracca, la presenza di altre donne ma non potrei dire chi e quante erano. Il
velo di incoscienza si squarcia allorché una voce mi annuncia che l’indomani
sarò trasportata all’ospedale. Il terrore mi squassa: urlo. Non voglio andare
all’ospedale. So che cosa significa andare all’ospedale. Non voglio essere
gasata. Tento di alzarmi per dimostrare che sto benissimo. Posso lavorare,
certo che posso, sto in piedi, agito le braccia, non ho bisogno di cure. Perdo
nuovamente la consapevolezza di me e del tempo. Un’altra immagine: l’indomani.
Due uomini entrano con una barella e si dirigono verso di me. Ricomincio a
urlare. Mi afferro ai bordi del pagliericcio, alle lenzuola. Non sono malata,
mi sento benissimo. Mi sento forte. Non sono mai stata così ricca di energie.
Per pietà, risparmiatemi. I due uomini mi sono vicini. Chiamo la mamma,
Roberto, Paolo che mi vengano a difendere, perché impediscano a quei due di
portarmi via. Ho l’impressione di lottare come una belva per difendere la mia
vita e invece i due uomini mi sollevano senza alcuno sforzo e mi caricano sulla
barella. Continuo urlare. Tutti i miei sensi sono dolorosamente acutizzati.
L’autoambulanza corre. Un’ampia scalinata. Corsie bianche. Un letto. Cado
ancora nell’incoscienza. Una mano fresca sulla fronte. Riapro gli occhi.
Un’infermiera è curva su di me. «Come stai?», mi chiede in italiano. Il primo
mio pensiero è nuovamente percorso da scariche di terrore. «Sto benissimo.
Posso lavorare. Mi faccia alzare. Vado subito al lavoro». L’infermiera non
comprende. Ricordo il suo viso chino quasi a toccare il mio. «Ti ho chiesto
come ti senti!». Scoppio a piangere. «Lei è italiana come me», singhiozzo, «la
prego mi faccia andare via di qui. Mi faccia tornare in baracca. Posso
lavorare. Non voglio essere gasata». Gli occhi dell’infermiera si dilatano. In
quel torbido crepuscolo della mia mente li vedo diventare grandi, enormi. Pieni
di pioggia. Due braccia mi stringono e un petto accoglie la mia testa rasata,
il teschio che è il mio viso. L’infermiera comincia a parlare. Ogni sua parola
mi riporta lentamente alla vita. Siamo al 17 maggio, mi dice. La guerra è
finita da nove giorni. Qui sei nell’ospedale di Altona, ad Amburgo. Ci sei
entrata il 9 maggio. Tento di scuotermi. No, dico, è impossibile. La guerra non
è finita. Mi dica la verità, non m’illuda. Mi dica che devo morire piuttosto.
L’infermiera mi accarezza il capo. La guerra è finita, insiste. Mi lascia un
attimo: ritorna con sigarette, cioccolata, biscotti americani, me li sparge sul
letto. Comincio a ridere. Brava, applaude l’infermiera, così. Così. Guardati
attorno. Guarda che pulizia. Stamattina sembravi sveglia quando i medici sono
venuti a visitarti. Di’, che forse i tedeschi ti manderebbero tanti medici? Ci
credi ora che la guerra è finita? Io rido, ci credo, ci credo. Fatemi alzare.
Fatemi tornare a casa. Forse i miei sono già in viaggio per l’Italia. I miei.
Una nube. L’infermiera mi dà qualcosa da bere. Sta’ tranquilla adesso, mi
sussurra. Cerca di dormire. Sei malata. Molto malata. Ma non morirai e potrai
tornare a casa. Come i tuoi. Il 26 agosto, grande giornata. Con altri italiani
lascio in barella l’ospedale di Amburgo. L’infermiera viene a salutarmi. Tra un
paio di giorni sarai a casa. Un treno ospedale ci attende in stazione. Il
convoglio parte quasi subito. Un’oscura e profonda felicità mi pervade e quasi
alimenta la speranza di ritrovare i miei. La mente è ancora così debole che
dico i miei e penso a tutti: papà, mamma, Roberto, Giorgio, Maria Luisa,
Bice... Anche Bice. Solo a tratti un nero ricordo mi travaglia. Una panca e
sopra un cumulo di neve. Il cielo plumbeo.
Dal memoriale di Piera Sonnino pubblicato per la prima volta
da «Diario del mese», 24 gennaio 2003
Quindi nel 2004 come volume dalla casa editrice il
saggiatore.
estratto da: http://www.senzapaura.orgda «Diario de l mese», 24 gennaio 2003.
estratto da: http://www.senzapaura.org
A distanza di dodici anni da quando ho letto la prima volta questa storia mi prende una stretta al
cuore, mi sento soffocare e piango come se conoscessi il male per la prima volta
ma siccome fortunatamente non è la mia famiglia mi zittisco con doveroso
rispetto.
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