martedì 27 gennaio 2015

Piera Sonnino - Questo è Stato 
estratto 6

… Anche i ricordi dei giorni successivi sono confusi. Dal pagliericcio sul quale ero distesa scorgevo attraverso i vetri di una finestra pile di casse e divise kaki, mi arrivava all’orecchio un vociare confuso, rombi di motori sovrastavano all’improvviso ogni altro rumore, rombi che rimanevano a lungo nella mia mente. Avevo il corpo dolorante e la febbre altissima. Ero incapace di qualsiasi movimento e di qualsiasi pensiero. Avvertivo al mio fianco, nella stessa baracca, la presenza di altre donne ma non potrei dire chi e quante erano. Il velo di incoscienza si squarcia allorché una voce mi annuncia che l’indomani sarò trasportata all’ospedale. Il terrore mi squassa: urlo. Non voglio andare all’ospedale. So che cosa significa andare all’ospedale. Non voglio essere gasata. Tento di alzarmi per dimostrare che sto benissimo. Posso lavorare, certo che posso, sto in piedi, agito le braccia, non ho bisogno di cure. Perdo nuovamente la consapevolezza di me e del tempo. Un’altra immagine: l’indomani. Due uomini entrano con una barella e si dirigono verso di me. Ricomincio a urlare. Mi afferro ai bordi del pagliericcio, alle lenzuola. Non sono malata, mi sento benissimo. Mi sento forte. Non sono mai stata così ricca di energie. Per pietà, risparmiatemi. I due uomini mi sono vicini. Chiamo la mamma, Roberto, Paolo che mi vengano a difendere, perché impediscano a quei due di portarmi via. Ho l’impressione di lottare come una belva per difendere la mia vita e invece i due uomini mi sollevano senza alcuno sforzo e mi caricano sulla barella. Continuo urlare. Tutti i miei sensi sono dolorosamente acutizzati. L’autoambulanza corre. Un’ampia scalinata. Corsie bianche. Un letto. Cado ancora nell’incoscienza. Una mano fresca sulla fronte. Riapro gli occhi. Un’infermiera è curva su di me. «Come stai?», mi chiede in italiano. Il primo mio pensiero è nuovamente percorso da scariche di terrore. «Sto benissimo. Posso lavorare. Mi faccia alzare. Vado subito al lavoro». L’infermiera non comprende. Ricordo il suo viso chino quasi a toccare il mio. «Ti ho chiesto come ti senti!». Scoppio a piangere. «Lei è italiana come me», singhiozzo, «la prego mi faccia andare via di qui. Mi faccia tornare in baracca. Posso lavorare. Non voglio essere gasata». Gli occhi dell’infermiera si dilatano. In quel torbido crepuscolo della mia mente li vedo diventare grandi, enormi. Pieni di pioggia. Due braccia mi stringono e un petto accoglie la mia testa rasata, il teschio che è il mio viso. L’infermiera comincia a parlare. Ogni sua parola mi riporta lentamente alla vita. Siamo al 17 maggio, mi dice. La guerra è finita da nove giorni. Qui sei nell’ospedale di Altona, ad Amburgo. Ci sei entrata il 9 maggio. Tento di scuotermi. No, dico, è impossibile. La guerra non è finita. Mi dica la verità, non m’illuda. Mi dica che devo morire piuttosto. L’infermiera mi accarezza il capo. La guerra è finita, insiste. Mi lascia un attimo: ritorna con sigarette, cioccolata, biscotti americani, me li sparge sul letto. Comincio a ridere. Brava, applaude l’infermiera, così. Così. Guardati attorno. Guarda che pulizia. Stamattina sembravi sveglia quando i medici sono venuti a visitarti. Di’, che forse i tedeschi ti manderebbero tanti medici? Ci credi ora che la guerra è finita? Io rido, ci credo, ci credo. Fatemi alzare. Fatemi tornare a casa. Forse i miei sono già in viaggio per l’Italia. I miei. Una nube. L’infermiera mi dà qualcosa da bere. Sta’ tranquilla adesso, mi sussurra. Cerca di dormire. Sei malata. Molto malata. Ma non morirai e potrai tornare a casa. Come i tuoi. Il 26 agosto, grande giornata. Con altri italiani lascio in barella l’ospedale di Amburgo. L’infermiera viene a salutarmi. Tra un paio di giorni sarai a casa. Un treno ospedale ci attende in stazione. Il convoglio parte quasi subito. Un’oscura e profonda felicità mi pervade e quasi alimenta la speranza di ritrovare i miei. La mente è ancora così debole che dico i miei e penso a tutti: papà, mamma, Roberto, Giorgio, Maria Luisa, Bice... Anche Bice. Solo a tratti un nero ricordo mi travaglia. Una panca e sopra un cumulo di neve. Il cielo plumbeo.

Dal memoriale di Piera Sonnino pubblicato per la prima volta da «Diario del mese», 24 gennaio 2003
Quindi nel 2004 come volume dalla casa editrice il saggiatore.
estratto da: http://www.senzapaura.org da «Diario de l mese», 24 gennaio 2003.


A distanza di dodici anni da quando ho letto la prima volta questa storia mi prende una stretta al cuore, mi sento soffocare e piango come se conoscessi il male per la prima volta ma siccome fortunatamente non è la mia famiglia mi zittisco con doveroso rispetto. 

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