venerdì 23 gennaio 2015

Piera Sonnino - Questo è Stato 
estratto 2

…Papà e mamma, dopo il matrimonio, si erano trasferiti da Roma a Portici e, quindi, nel 1923, con i figli già nati, Paolo, Roberto, Maria Luisa e io, a Milano. A Milano erano venuti alla luce Bice e Giorgio e questi aveva pochi mesi di vita quando a seguito di un nuovo trasloco ci sistemammo a Genova. Mio padre aveva assunto la gestione di un negozio in piazza Campetto e ciò pareva averci aperto buone prospettive per l’avvenire. Tre anni dopo, però, in seguito alla sua cattiva sorte, papà dovette riprendere l’antica e magra professione di rappresentante di commercio. Nel 1935, come ho già detto, Roberto lasciò gli studi e si impiegò. Di quel periodo ho ricordi assai poco gradevoli. Erano numerosi i giorni in cui non avevamo nulla, nel significato letterale della parola, da mangiare. Parecchie volte, Maria Luisa, Bice e io avemmo come pranzo e cena un gelato che il vecchissimo avvocato Giuseppe Fontana, il quale ci trattava come sue nipotine e mai avrebbe potuto immaginare le nostre condizioni, ci regalava incontrandoci nei giardini di piazza Manin. Difendevamo la nostra miseria dagli estranei con tutti gli espedienti possibili. Eravamo diventati tutti assai bravi nell’impedire a chiunque non appartenesse allo stretto ambito familiare di entrare in casa nostra e di rendersi conto dei vuoti che si erano aperti nei mobili e nelle suppellettili. Per noi ragazze era quella l’età in cui piace invitare a casa le amiche e le compagne di scuola ed essere invitate a nostra volta per giocare, studiare e trascorrere un po’ di tempo assieme. Noi non potevamo aspirare né all’una né all’altra cosa, eravamo costrette a mantenere i rapporti con le nostre coetanee a un livello del tutto superficiale, imparando a contenere e a soffocare qualsiasi impeto di simpatia. Tanto pudore, o tanta vergogna, della nostra miseria oggi non mi appare più del tutto comprensibile se non inquadrato nel dramma economico e sociale che investiva in quell’epoca numerose famiglie della piccola e media borghesia, quelle, almeno, che non erano riuscite o non avevano voluto inserirsi nel regime. Accettavamo di nascondere il nostro vero stato come fosse naturale farlo e se qualcuno ci avesse detto che così facendo obbedivamo ai pregiudizi, all’incapacità di affrontare la realtà e alla fondamentale inerzia delle classi da cui provenivamo e non, invece, alle leggi della dignità e del decoro ci saremmo ribellati. Io per prima. Si aggiunga, inoltre, che noi eravamo originari del Sud, da cui eravamo giunti con tradizioni e costumi fermi come principi irrevocabili, e che, pertanto, ci riusciva assai difficile assimilare o farci assimilare dall’ambiente genovese. Un’altra ipoteca che gravava su noi era rappresentata da quella particolare atmosfera deformante di ogni realtà che fu propria del fascismo. L’ottimismo ufficiale del regime non ammetteva e non tollerava drammi economici familiari. Noi che di fascismo non eravamo contagiati avvertivamo assai bene l’incolmabile frattura tra la realtà e l’ottimismo ufficiale, ma penso che quest’ultimo, in fondo, finisse, anche se inconsciamente, per legittimare in qualche modo ciò che giudicavamo fosse dignità e decoro. Tutti questi e altri elementi erano all’origine di quella fase di isolamento della nostra famiglia che avrebbe potuto concludersi quando, qualche anno più tardi, l’impiego di Paolo e di Maria Luisa e infine il mio, oltre quello di Roberto, ristabilì in parte la situazione.

…Paolo fu assunto dalla ditta Fratelli Schiavetti, Roberto dalla ditta Terracini e Maria Luisa dapprima nello studio dell’avvocato Greco e successivamente in quello degli avvocati Sciarretta e Medina. Nel 1941 io stessa occupai il posto lasciato vacante nella S.A.I.C., di proprietà dei signori Morelli e Ginepro, da un ebreo tedesco che era stato rinchiuso in un campo di concentramento a Montefiascone. Ognuno di noi nel domandare lavoro era tenuto a declinare la propria qualità di ebreo, ma essa – salvo qualche caso di «prudenza» – non provocava se non aperte professioni antifasciste fatte sovente col tono di chi ha tardato troppo a trovare qualcuno con cui sfogare un sentimento a lungo represso, sicuro di potersene fidare. Se il dramma degli ebrei italiani anche dopo l’8 settembre 1943 non attinse le proporzioni tragiche altrove subite dai nostri correligionari ciò fu dovuto alla meravigliosa e umana coscienza del nostro popolo. E io ritengo che proprio la mia testimonianza possa essere più preziosa di altre perché nel corso dell’anno che vivemmo alla macchia, assillati e tormentati dall’incubo, sempre più vicini alla nostra tremenda fine, ho potuto conoscere e valutare il significato di ciò che vado dicendo. Ricordo un povero contadino di Sampierdicanne, nei pressi di Chiavari, dove ci eravamo rifugiati, ripetere che l’umanità non si divide in ebrei e non ebrei ma in ricchi e poveri, tra chi possiede tutto e chi non possiede nulla, tra chi lavora la terra e non ne gode i frutti e chi non la lavora e si appropria della mietitura e della vendemmia. Queste parole di antica saggezza mi sono rimaste nel cuore e sono certa che esse racchiudono l’estrema verità dei popoli. Io, ebrea italiana, ne ho sperimentato il valore quando per me la mia sola esistenza rappresentava un reato da punire con la morte.


estratto da: http://www.senzapaura.org da «Diario de l mese», 24 gennaio 2003.

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