Piera Sonnino - Questo è Stato
estratto 2
estratto 2
…Papà e mamma,
dopo il matrimonio, si erano trasferiti da Roma a Portici e, quindi, nel 1923,
con i figli già nati, Paolo, Roberto, Maria Luisa e io, a Milano. A Milano
erano venuti alla luce Bice e Giorgio e questi aveva pochi mesi di vita quando
a seguito di un nuovo trasloco ci sistemammo a Genova. Mio padre aveva assunto
la gestione di un negozio in piazza Campetto e ciò pareva averci aperto buone
prospettive per l’avvenire. Tre anni dopo, però, in seguito alla sua cattiva sorte,
papà dovette riprendere l’antica e magra professione di rappresentante di
commercio. Nel 1935, come ho già detto, Roberto lasciò gli studi e si impiegò.
Di quel periodo ho ricordi assai poco gradevoli. Erano numerosi i giorni in cui
non avevamo nulla, nel significato letterale della parola, da mangiare.
Parecchie volte, Maria Luisa, Bice e io avemmo come pranzo e cena un gelato che
il vecchissimo avvocato Giuseppe Fontana, il quale ci trattava come sue
nipotine e mai avrebbe potuto immaginare le nostre condizioni, ci regalava
incontrandoci nei giardini di piazza Manin. Difendevamo la nostra miseria dagli
estranei con tutti gli espedienti possibili. Eravamo diventati tutti assai
bravi nell’impedire a chiunque non appartenesse allo stretto ambito familiare
di entrare in casa nostra e di rendersi conto dei vuoti che si erano aperti nei
mobili e nelle suppellettili. Per noi ragazze era quella l’età in cui piace
invitare a casa le amiche e le compagne di scuola ed essere invitate a nostra
volta per giocare, studiare e trascorrere un po’ di tempo assieme. Noi non
potevamo aspirare né all’una né all’altra cosa, eravamo costrette a mantenere i
rapporti con le nostre coetanee a un livello del tutto superficiale, imparando
a contenere e a soffocare qualsiasi impeto di simpatia. Tanto pudore, o tanta
vergogna, della nostra miseria oggi non mi appare più del tutto comprensibile
se non inquadrato nel dramma economico e sociale che investiva in quell’epoca
numerose famiglie della piccola e media borghesia, quelle, almeno, che non
erano riuscite o non avevano voluto inserirsi nel regime. Accettavamo di
nascondere il nostro vero stato come fosse naturale farlo e se qualcuno ci
avesse detto che così facendo obbedivamo ai pregiudizi, all’incapacità di
affrontare la realtà e alla fondamentale inerzia delle classi da cui
provenivamo e non, invece, alle leggi della dignità e del decoro ci saremmo
ribellati. Io per prima. Si aggiunga, inoltre, che noi eravamo originari del
Sud, da cui eravamo giunti con tradizioni e costumi fermi come principi
irrevocabili, e che, pertanto, ci riusciva assai difficile assimilare o farci
assimilare dall’ambiente genovese. Un’altra ipoteca che gravava su noi era
rappresentata da quella particolare atmosfera deformante di ogni realtà che fu
propria del fascismo. L’ottimismo ufficiale del regime non ammetteva e non
tollerava drammi economici familiari. Noi che di fascismo non eravamo
contagiati avvertivamo assai bene l’incolmabile frattura tra la realtà e
l’ottimismo ufficiale, ma penso che quest’ultimo, in fondo, finisse, anche se
inconsciamente, per legittimare in qualche modo ciò che giudicavamo fosse
dignità e decoro. Tutti questi e altri elementi erano all’origine di quella
fase di isolamento della nostra famiglia che avrebbe potuto concludersi quando,
qualche anno più tardi, l’impiego di Paolo e di Maria Luisa e infine il mio,
oltre quello di Roberto, ristabilì in parte la situazione.
…Paolo fu assunto dalla ditta Fratelli Schiavetti, Roberto
dalla ditta Terracini e Maria Luisa dapprima nello studio dell’avvocato Greco e
successivamente in quello degli avvocati Sciarretta e Medina. Nel 1941 io
stessa occupai il posto lasciato vacante nella S.A.I.C., di proprietà dei
signori Morelli e Ginepro, da un ebreo tedesco che era stato rinchiuso in un
campo di concentramento a Montefiascone. Ognuno di noi nel domandare lavoro era
tenuto a declinare la propria qualità di ebreo, ma essa – salvo qualche caso di
«prudenza» – non provocava se non aperte professioni antifasciste fatte sovente
col tono di chi ha tardato troppo a trovare qualcuno con cui sfogare un
sentimento a lungo represso, sicuro di potersene fidare. Se il dramma degli
ebrei italiani anche dopo l’8 settembre 1943 non attinse le proporzioni
tragiche altrove subite dai nostri correligionari ciò fu dovuto alla
meravigliosa e umana coscienza del nostro popolo. E io ritengo che proprio la
mia testimonianza possa essere più preziosa di altre perché nel corso dell’anno
che vivemmo alla macchia, assillati e tormentati dall’incubo, sempre più vicini
alla nostra tremenda fine, ho potuto conoscere e valutare il significato di ciò
che vado dicendo. Ricordo un povero contadino di Sampierdicanne, nei pressi di
Chiavari, dove ci eravamo rifugiati, ripetere che l’umanità non si divide in
ebrei e non ebrei ma in ricchi e poveri, tra chi possiede tutto e chi non
possiede nulla, tra chi lavora la terra e non ne gode i frutti e chi non la
lavora e si appropria della mietitura e della vendemmia. Queste parole di
antica saggezza mi sono rimaste nel cuore e sono certa che esse racchiudono
l’estrema verità dei popoli. Io, ebrea italiana, ne ho sperimentato il valore
quando per me la mia sola esistenza rappresentava un reato da punire con la
morte.
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