Piera Sonnino - Questo è Stato
estratto 4
…Rivedemmo papà
e i ragazzi la sera del settimo giorno di detenzione quando fummo fatte uscire
dal camerone e trasferite in un sito altrettanto squallido dove trovammo i
nostri congiunti con altri nostri correligionari. Papà e Giorgio ci apparvero
prossimi al collasso. Giorgio si lanciò tra le braccia della mamma e si strinse
a essa disperatamente. Roberto e Paolo si sforzavano, come al solito, di apparire in condizioni di spirito soddisfacenti.
…In viaggio verso l’ignoto. Nel vagone la luce è scarsa, un
poco alla volta l’aria diventa irrespirabile. Lo spazio a nostra disposizione è
così limitato che non possiamo muoverci. A malapena riusciamo a sederci dandoci
il cambio.
… La sensazione più precisa che ricordo è l’orribile
certezza di essere nata e di dover vivere per tutta l’eternità tra quegli assi
di legno in movimento, in quel lezzo. La mia esistenza è una riva che si
allontana sempre di più, che sempre di più diventa come invisibile, avvolta in
nebbie pesanti. Il pazzo desiderio di tornarvi, di ridestarmi nel mio letto
dopo una notte di incubi, sfuma; a tratti non lo ritrovo più dentro di me.
Dalla feritoia del vagone entrano la notte e il gelo quando il convoglio si
arresta ancora una volta. Siamo immerse nella sonnolenza che ci ha colto ormai
da ore. Quasi la coscienza si fosse ridotta fino a dimenticare se stessa. La
sosta si protrae ma non vi prestiamo attenzione. A un tratto al di fuori
esplode un inferno di grida e di colpi di fischietto. Sembra che mille cani
stiano latrando nella lotta. Le porte dei vagoni vengono aperte con violenza.
Fasci di luce ci abbacinano. Soldati in divisa nera e grigia ci urlano parole
incomprensibili. Balziamo in piedi, atterrite.
… Una grande spoglia baracca. Una lunga, interminabile
notte. Roberto è venuto ad annunciarci che siamo ad Auschwitz. Il nome non ci
ha detto nulla. Immaginiamo di essere in Germania e invece siamo in Polonia. Le
donne sono raccolte al centro della baracca, unite una all’altra per scaldarsi
reciprocamente con il calore dei propri corpi. Noi giovani andiamo spesso a
spiare all’esterno guardando attraverso i vetri delle due finestre che si
aprono su una parete della baracca. Una muraglia di tenebre. Non riusciamo a
vedere nulla. Roberto e Paolo passano da un gruppo all’altro e di tanto in
tanto vengono a riferirci ciò che si dice, le notizie che corrono. Giorgio è in
grembo a nostra madre, rannicchiato come fosse tornato indietro nel tempo, come
chiedesse a chi l’ha generato di riprenderlo in se stessa, di annullarlo
gradatamente, di togliergli la vita che gli ha dato. Papà si muove come un
automa, come fosse privo di sensi e di volontà. L’ingessatura della spalla gli
da più che mai fastidio, ma non se ne lamenta. Forse non se n’accorge neppure.
Le nostre percezioni sensorie hanno subito un collasso. Viviamo ai margini
della coscienza. In un mondo assurdamente irreale e reale nel contempo. È
questa l’ultima notte che la mia famiglia trascorre assieme, unita. Non ve ne
saranno altre. Otto creature legate da vincoli di sangue che si stringono
d’appresso per l’ultima volta. Rivedo mia madre, mio padre, i miei fratelli, le
mie sorelle, io stessa, attingere in noi, dalla nostra unione, l’estremo calore
umano che ci è consentito.
… Un sussulto di orrore quando si apre la porta ed entra uno
scheletro dagli occhi lucidi che indossa una divisa a strisce cascante sul suo
corpo incredibilmente magro. Gli uomini gli si affollano attorno. Lo scheletro
ha un secchio in mano. Si trattiene qualche istante poi con il suo passo lento
attraversa la baracca e scompare. Ne seguono altri. Sono addetti ai servizi del
campo. Turno di notte. Uno di essi si arresta dinanzi a me. Mi indica la
caviglia fasciata e mi fa segno di togliere subito le bende. Indugio perché non
comprendo. La parola selezione mi colpisce tra le altre. Lo scheletro si
rivolge agli uomini e parla loro concitatamente. Parla in tedesco. Vi è chi lo
traduce. Occorre far scomparire subito qualsiasi segno che possa rivelare una
nostra menomazione fisica. Ferite o malattie. Le selezioni si vanno facendo
sempre più severe. Le camere a gas e i forni funzionano a ritmo serrato. Chi
non è in grado di lavorare viene eliminato. Mi tolgo subito la garza di carta e
la sottile benda che mi stringono la caviglia. Le parole sembrano uscire non
dalla bocca di un uomo, ma dalla notte. Imploriamo papà di fare altrettanto con
la sua ingessatura. Papà scuote il capo. Sembra che non comprenda ciò che gli diciamo.
Si lascia cadere in mezzo a noi e rimane immobile, con gli occhi chiusi. La
mamma gli prende una mano e gliela stringe. Roberto, Paolo, Maria Luisa, Bice e
io ci raduniamo attorno ai nostri genitori e a Giorgio. Così trascorriamo il
resto della notte e qualsiasi cosa dicessi di quel tempo non avrebbe senso
tradotto in parole, sarebbe un’esile ombra di quella realtà. Lo ruberei a me
stessa, a ciò che è mio, disperatamente soltanto mio. L’alba si preannunciava
con grigie dita alle finestre della baracca quando vi irruppero le Ss. Con il
mitra spianato, si dispongono attorno a noi, chiudendoci in un cerchio. Tre
ufficiali, di cui uno porta i contrassegni di medico, ci ordinano di alzarci e
di schierarci in colonna. Mano a mano che ognuno di noi viene chiamato, fa un
passo in avanti e il medico lo scruta, lo esamina, gli tasta i muscoli del
braccio. Siamo divisi in tre gruppi: i vecchi, i giovani e le giovani. Tutto
avviene rapidamente. Non facciamo neppure in tempo a scambiarci un saluto: il
gruppo delle giovani è il primo a lasciare la baracca in mezzo a una tempesta
di ordini gridati ad alta voce. Non riusciamo neppure a voltarci una volta, una
sola volta, per rivedere mamma e papà e i nostri fratelli. Siamo spinti
brutalmente all’esterno, nel fango che ci si incolla alle scarpe, nell’aria
gelida.
… «Siete italiane?». Ci voltammo. Una donna pallidissima e
magra tentò di sorriderci. Disse di essere la dottoressa Morpurgo di Trieste
[9]e ci chiese se avevamo notizie di una sua sorella che risiedeva a Genova. Se
ci risultava che fosse stata catturata e se aveva viaggiato nel nostro stesso
transport. Le rispondemmo di no. La donna parve tranquillizzarsi. S’informò di
noi. Le domandammo a nostra volta se avevamo qualche possibilità di vedere i
nostri genitori e i nostri fratelli. «I vostri fratelli se sopravviveranno...
Vostra madre e vostro padre no. Sono già stati gasati». Indicò la direzione
nella quale sorgevano i camini e dove alla notte rosseggiava sinistra la
fiamma. Continuò a parlarci tristemente, mentre piangevamo, dicendoci che
dovevamo affrontare la realtà così com’era, soffocando ogni sentimento,
evitando l’insorgere di qualsiasi illusione, lottando soprattutto per
sopravvivere. Ci disse che non era umano piangere la morte dei nostri genitori:
in quelle condizioni dovevamo essere lieti che nostro padre e nostra madre
fossero periti. Non potevano avere sorte migliore. Bice pareva divenuta di
ghiaccio. Mi era accanto e la sentivo gelida. Maria Luisa si scioglieva in
lacrime. La dottoressa Morpurgo le carezzava i capelli. Prima che le
sorveglianti le ordinassero di allontanarsi ebbe ancora il tempo di annunciarci
che probabilmente non saremmo rimaste ad Auschwitz.
…Mentre il treno iniziava la sua corsa Maria Luisa, Bice e
io cercammo di dare un’ultima occhiata ad Auschwitz: i nostri genitori e i nostri
fratelli erano là. In fondo a ognuna di noi era l’inconfessabile speranza che
nonostante tutto, nonostante ciò che avevamo veduto e appreso, mamma e papà
fossero ancora vivi, che li avremmo riveduti assieme a Paolo, Roberto e
Giorgio. Quel viaggio di due giorni non ha storia. Eravamo tutte allo stremo
delle forze. Giacevamo l’una sull’altra senza muoverci, senza parlare. La fame,
dopo un periodo di intensità spasmodica, pareva essersi acquietata. A me pareva
di non avere più stomaco. Di non avere forma. Senza passato e senza avvenire.
Avevo coscienza tuttavia che quello era soltanto l’inizio. Misuravamo, nei
paurosi scheletri viventi delle altre compagne che erano con noi, le sofferenze
che ancora ci attendevano. Quando il convoglio si arrestò e dopo una lunga
sosta furono riaperte le porte dei vagoni, avemmo la sensazione di essere
tornate al luogo da cui eravamo partite. Dinanzi a noi era la notte, una notte
nebbiosa e gelida, e un mare di fango. La baracca che ci attendeva pareva
uscita dai sogni di un folle: invasa da un lezzo che toglieva il respiro, con
le cucce a castelli unite l’una all’altra, popolata da fantasmi. Ci pigiammo lì
dentro cercando soltanto di darci calore a vicenda. Una di noi
nell’attraversare il lager aveva chiesto dove ci trovavamo. «Belsen...», era
stata la risposta. Dall’indomani mattina, all’alba, cominciarono gli appelli
all’aperto, nell’aria gelida di un inverno rigidissimo. E sperimentammo fino in
fondo la crudeltà. Per un futile errore durante il lavoro Maria Luisa fu
battuta a sangue sotto i nostri occhi, miei e di Bice.
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