domenica 25 gennaio 2015

Piera Sonnino - Questo è Stato  
estratto 4

…Rivedemmo papà e i ragazzi la sera del settimo giorno di detenzione quando fummo fatte uscire dal camerone e trasferite in un sito altrettanto squallido dove trovammo i nostri congiunti con altri nostri correligionari. Papà e Giorgio ci apparvero prossimi al collasso. Giorgio si lanciò tra le braccia della mamma e si strinse a essa disperatamente. Roberto e Paolo si sforzavano, come al solito, di apparire in condizioni di spirito soddisfacenti.
…In viaggio verso l’ignoto. Nel vagone la luce è scarsa, un poco alla volta l’aria diventa irrespirabile. Lo spazio a nostra disposizione è così limitato che non possiamo muoverci. A malapena riusciamo a sederci dandoci il cambio.
… La sensazione più precisa che ricordo è l’orribile certezza di essere nata e di dover vivere per tutta l’eternità tra quegli assi di legno in movimento, in quel lezzo. La mia esistenza è una riva che si allontana sempre di più, che sempre di più diventa come invisibile, avvolta in nebbie pesanti. Il pazzo desiderio di tornarvi, di ridestarmi nel mio letto dopo una notte di incubi, sfuma; a tratti non lo ritrovo più dentro di me. Dalla feritoia del vagone entrano la notte e il gelo quando il convoglio si arresta ancora una volta. Siamo immerse nella sonnolenza che ci ha colto ormai da ore. Quasi la coscienza si fosse ridotta fino a dimenticare se stessa. La sosta si protrae ma non vi prestiamo attenzione. A un tratto al di fuori esplode un inferno di grida e di colpi di fischietto. Sembra che mille cani stiano latrando nella lotta. Le porte dei vagoni vengono aperte con violenza. Fasci di luce ci abbacinano. Soldati in divisa nera e grigia ci urlano parole incomprensibili. Balziamo in piedi, atterrite.
… Una grande spoglia baracca. Una lunga, interminabile notte. Roberto è venuto ad annunciarci che siamo ad Auschwitz. Il nome non ci ha detto nulla. Immaginiamo di essere in Germania e invece siamo in Polonia. Le donne sono raccolte al centro della baracca, unite una all’altra per scaldarsi reciprocamente con il calore dei propri corpi. Noi giovani andiamo spesso a spiare all’esterno guardando attraverso i vetri delle due finestre che si aprono su una parete della baracca. Una muraglia di tenebre. Non riusciamo a vedere nulla. Roberto e Paolo passano da un gruppo all’altro e di tanto in tanto vengono a riferirci ciò che si dice, le notizie che corrono. Giorgio è in grembo a nostra madre, rannicchiato come fosse tornato indietro nel tempo, come chiedesse a chi l’ha generato di riprenderlo in se stessa, di annullarlo gradatamente, di togliergli la vita che gli ha dato. Papà si muove come un automa, come fosse privo di sensi e di volontà. L’ingessatura della spalla gli da più che mai fastidio, ma non se ne lamenta. Forse non se n’accorge neppure. Le nostre percezioni sensorie hanno subito un collasso. Viviamo ai margini della coscienza. In un mondo assurdamente irreale e reale nel contempo. È questa l’ultima notte che la mia famiglia trascorre assieme, unita. Non ve ne saranno altre. Otto creature legate da vincoli di sangue che si stringono d’appresso per l’ultima volta. Rivedo mia madre, mio padre, i miei fratelli, le mie sorelle, io stessa, attingere in noi, dalla nostra unione, l’estremo calore umano che ci è consentito.
… Un sussulto di orrore quando si apre la porta ed entra uno scheletro dagli occhi lucidi che indossa una divisa a strisce cascante sul suo corpo incredibilmente magro. Gli uomini gli si affollano attorno. Lo scheletro ha un secchio in mano. Si trattiene qualche istante poi con il suo passo lento attraversa la baracca e scompare. Ne seguono altri. Sono addetti ai servizi del campo. Turno di notte. Uno di essi si arresta dinanzi a me. Mi indica la caviglia fasciata e mi fa segno di togliere subito le bende. Indugio perché non comprendo. La parola selezione mi colpisce tra le altre. Lo scheletro si rivolge agli uomini e parla loro concitatamente. Parla in tedesco. Vi è chi lo traduce. Occorre far scomparire subito qualsiasi segno che possa rivelare una nostra menomazione fisica. Ferite o malattie. Le selezioni si vanno facendo sempre più severe. Le camere a gas e i forni funzionano a ritmo serrato. Chi non è in grado di lavorare viene eliminato. Mi tolgo subito la garza di carta e la sottile benda che mi stringono la caviglia. Le parole sembrano uscire non dalla bocca di un uomo, ma dalla notte. Imploriamo papà di fare altrettanto con la sua ingessatura. Papà scuote il capo. Sembra che non comprenda ciò che gli diciamo. Si lascia cadere in mezzo a noi e rimane immobile, con gli occhi chiusi. La mamma gli prende una mano e gliela stringe. Roberto, Paolo, Maria Luisa, Bice e io ci raduniamo attorno ai nostri genitori e a Giorgio. Così trascorriamo il resto della notte e qualsiasi cosa dicessi di quel tempo non avrebbe senso tradotto in parole, sarebbe un’esile ombra di quella realtà. Lo ruberei a me stessa, a ciò che è mio, disperatamente soltanto mio. L’alba si preannunciava con grigie dita alle finestre della baracca quando vi irruppero le Ss. Con il mitra spianato, si dispongono attorno a noi, chiudendoci in un cerchio. Tre ufficiali, di cui uno porta i contrassegni di medico, ci ordinano di alzarci e di schierarci in colonna. Mano a mano che ognuno di noi viene chiamato, fa un passo in avanti e il medico lo scruta, lo esamina, gli tasta i muscoli del braccio. Siamo divisi in tre gruppi: i vecchi, i giovani e le giovani. Tutto avviene rapidamente. Non facciamo neppure in tempo a scambiarci un saluto: il gruppo delle giovani è il primo a lasciare la baracca in mezzo a una tempesta di ordini gridati ad alta voce. Non riusciamo neppure a voltarci una volta, una sola volta, per rivedere mamma e papà e i nostri fratelli. Siamo spinti brutalmente all’esterno, nel fango che ci si incolla alle scarpe, nell’aria gelida.
… «Siete italiane?». Ci voltammo. Una donna pallidissima e magra tentò di sorriderci. Disse di essere la dottoressa Morpurgo di Trieste [9]e ci chiese se avevamo notizie di una sua sorella che risiedeva a Genova. Se ci risultava che fosse stata catturata e se aveva viaggiato nel nostro stesso transport. Le rispondemmo di no. La donna parve tranquillizzarsi. S’informò di noi. Le domandammo a nostra volta se avevamo qualche possibilità di vedere i nostri genitori e i nostri fratelli. «I vostri fratelli se sopravviveranno... Vostra madre e vostro padre no. Sono già stati gasati». Indicò la direzione nella quale sorgevano i camini e dove alla notte rosseggiava sinistra la fiamma. Continuò a parlarci tristemente, mentre piangevamo, dicendoci che dovevamo affrontare la realtà così com’era, soffocando ogni sentimento, evitando l’insorgere di qualsiasi illusione, lottando soprattutto per sopravvivere. Ci disse che non era umano piangere la morte dei nostri genitori: in quelle condizioni dovevamo essere lieti che nostro padre e nostra madre fossero periti. Non potevano avere sorte migliore. Bice pareva divenuta di ghiaccio. Mi era accanto e la sentivo gelida. Maria Luisa si scioglieva in lacrime. La dottoressa Morpurgo le carezzava i capelli. Prima che le sorveglianti le ordinassero di allontanarsi ebbe ancora il tempo di annunciarci che probabilmente non saremmo rimaste ad Auschwitz.
…Mentre il treno iniziava la sua corsa Maria Luisa, Bice e io cercammo di dare un’ultima occhiata ad Auschwitz: i nostri genitori e i nostri fratelli erano là. In fondo a ognuna di noi era l’inconfessabile speranza che nonostante tutto, nonostante ciò che avevamo veduto e appreso, mamma e papà fossero ancora vivi, che li avremmo riveduti assieme a Paolo, Roberto e Giorgio. Quel viaggio di due giorni non ha storia. Eravamo tutte allo stremo delle forze. Giacevamo l’una sull’altra senza muoverci, senza parlare. La fame, dopo un periodo di intensità spasmodica, pareva essersi acquietata. A me pareva di non avere più stomaco. Di non avere forma. Senza passato e senza avvenire. Avevo coscienza tuttavia che quello era soltanto l’inizio. Misuravamo, nei paurosi scheletri viventi delle altre compagne che erano con noi, le sofferenze che ancora ci attendevano. Quando il convoglio si arrestò e dopo una lunga sosta furono riaperte le porte dei vagoni, avemmo la sensazione di essere tornate al luogo da cui eravamo partite. Dinanzi a noi era la notte, una notte nebbiosa e gelida, e un mare di fango. La baracca che ci attendeva pareva uscita dai sogni di un folle: invasa da un lezzo che toglieva il respiro, con le cucce a castelli unite l’una all’altra, popolata da fantasmi. Ci pigiammo lì dentro cercando soltanto di darci calore a vicenda. Una di noi nell’attraversare il lager aveva chiesto dove ci trovavamo. «Belsen...», era stata la risposta. Dall’indomani mattina, all’alba, cominciarono gli appelli all’aperto, nell’aria gelida di un inverno rigidissimo. E sperimentammo fino in fondo la crudeltà. Per un futile errore durante il lavoro Maria Luisa fu battuta a sangue sotto i nostri occhi, miei e di Bice.

estratto da: http://www.senzapaura.org da «Diario de l mese», 24 gennaio 2003.

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