Piera Sonnino - Questo è Stato
estratto 1
…Il giorno
dell’arresto, la deportazione, la nostra ultima lunga notte nella grande
baracca di smistamento di Auschwitz: ricordo il pianto di mia madre continuo e
ininterrotto di povera donna straziata. Paolo si era laureato in economia e
commercio nel 1940. Per poter studiare aveva dovuto lavorare e, in particolare,
dopo la promulgazione delle leggi razziali, le occupazioni che riuscì a trovare
furono sempre saltuarie e mal retribuite. La sua laurea fu il risultato di
lunghi sacrifici e di un carattere serio e tenace. Io credo che Paolo, pur
essendo il primogenito e quello che più di tutti godette di un più lungo
periodo di tranquillità, sia morto senza aver conosciuto l’amore. In casa
nostra era proibito parlare di certi argomenti, e l’amore era tra questi, ma io
ricorderei qualche episodio o qualche accenno riguardanti Paolo. E invece l’ho
nella memoria assorbito totalmente dapprima dal lavoro e dallo studio e poi
dall’ansia comune. L’ansia che anche a noi, suoi fratelli e sue sorelle, negò
la giovinezza e l’amore e perfino di poter sognare un avvenire. Dal 1938 in
poi, per cinque anni, noi vivemmo in un tempo senza futuro, un oscuro presente
sul quale gravava, confuso e indistinto, l’incubo che ci ghermì dopo l’8
settembre 1943. Mio fratello Roberto a 15 anni dovette interrompere gli studi e
occuparsi. Quanto mio padre guadagnava non era allora, come in genere non lo fu
mai, sufficiente a garantire alla nostra famiglia, dal 1925 composta di otto
persone, un livello di vita anche modesto. La prima retribuzione di Roberto fu
di duecento lire mensili. Roberto era un giovane pratico, allegro, amante della
vita. A mano a mano che nostro padre e nostra madre reagivano sempre meno
all’incubo che premeva attorno a noi, egli divenne se non il perno colui che
più di ogni altro sapeva sobbarcarsi le responsabilità della famiglia. Fu
Roberto a prendere iniziative che tante volte ci procurarono il pane e ci
tolsero da situazioni angosciose. Egli era tutt’altro che un contemplativo e se
avesse potuto ultimare gli studi probabilmente non avrebbe ottenuto lo stesso
successo di Paolo e non certo perché avesse meno intelligenza. Aveva un
carattere poco metodico, estroso, dell’uomo dalla personalità ricca di buon
senso e di idee. Giorgio fu l’ultimo nato. Dall’età della ragione in poi crebbe
nell’incubo. Gli ultimi nove mesi della sua esistenza li visse chiuso tra le
mura dell’appartamento di via Montallegro nel rione di San Martino dove avevamo
trovato alloggio e rifugio. Per nove lunghi mesi fu segregato dalla società e
dalla vita. Era divenuto nervoso fino all’esasperazione e durante i
bombardamenti aerei veniva colto da crisi che lo lasciavano esausto. Noi, sue
sorelle, lo provvedevamo di libri: ci chiedeva in continuazione volumi di
storia in particolare del primo Risorgimento. Era divenuto un profondo
conoscitore delle biografie di Mazzini e di Garibaldi. Negli ultimi tempi aveva
cominciato a mandare a memoria perfino un dizionario e al mattino quando veniva
ad aiutarci in cucina ci chiedeva il significato delle parole più astruse e
meno correnti che riusciva a trovare, divertendosi a metterci nell’imbarazzo.
Gli fornivamo l’occasione per lunghe dissertazioni che nascevano dal bisogno
che era in lui, e che noi comprendevamo, di sentirsi vivo attraverso le sue
stesse parole. Ma anche quelli erano rari momenti di distensione. Giorgio,
minuto per minuto, giorno per giorno, visse nove mesi di terrore. Egli fu tra
noi quello che per primo entrò nella nera anticamera della morte e quando la
morte giunse egli cedette senza resisterle. Maria Luisa era la sorella
maggiore. Una bellissima ragazza, dal carattere assai somigliante per molti
aspetti a quello di Roberto. Quando fummo ad Auschwitz e più tardi, divisi dai
nostri parenti, a Belsen e a Braunschweig, ella divenne per Bice e per me come
una madre. A distanza di quindici anni, talvolta, quando attorno a me regna il
silenzio, mi pare di riudire la sua voce, esile e arrochita, levarsi nella
baracca, quando cantava per Bice e me, per tenere desta in noi l’assurda
speranza di sopravvivere. Una sera, eravamo appena tornate alla stalla di
Braunschweig che dividevamo in poche ebree italiane con settecento
correligionarie ungheresi, una sorvegliante venne a leggere un elenco di noi
deportate. Tra esse vi era quello di Maria Luisa. Nostra sorella si incolonnò
con le altre chiamate. Bice e io credevamo che fossero destinate a un turno
supplementare di lavoro come spesso accadeva. Non fu dato a nostra sorella il
tempo di salutarci. Non la rivedemmo più. Bice, più di ogni altro figlio,
rassomigliava a nostra madre. Soprattutto nel carattere. Era la penultima nata.
Una bambina ancora ad Auschwitz, a Belsen, a Braunschweig. Per quattro giorni
il suo cadavere rimase abbandonato su una panca di legno e alla fine era
scomparso sotto la neve. Mio padre Ettore Sonnino e mia madre Giorgina Milani,
all’età rispettivamente di sessantaquattro e di cinquantotto anni, furono
uccisi nelle camere a gas di Birkenau il 28 ottobre 1944. Paolo, all’età di
ventisette anni e Roberto, all’età di ventisei anni, furono uccisi nel mese di
novembre. Giorgio, all’età di diciannove anni, fu ucciso pochi giorni dopo i
suoi fratelli. Maria Luisa all’età di venticinque anni fu uccisa a Flossenburg
il 20 marzo 1945. Bice fu uccisa a Braunschweig nella notte tra il 15 e il 16
gennaio 1945. Aveva ventun anni. Il numero che la morte aveva impresso sul mio
braccio, e che ancora porto, è: A26699. Nel settembre del 1950, dopo cinque
anni di case di cura e di sanatori, io sola, dell’intera mia famiglia, sono
tornata alla vita.
Nessun commento:
Posta un commento