giovedì 22 gennaio 2015

Piera Sonnino - Questo è Stato 
estratto 1

Il giorno dell’arresto, la deportazione, la nostra ultima lunga notte nella grande baracca di smistamento di Auschwitz: ricordo il pianto di mia madre continuo e ininterrotto di povera donna straziata. Paolo si era laureato in economia e commercio nel 1940. Per poter studiare aveva dovuto lavorare e, in particolare, dopo la promulgazione delle leggi razziali, le occupazioni che riuscì a trovare furono sempre saltuarie e mal retribuite. La sua laurea fu il risultato di lunghi sacrifici e di un carattere serio e tenace. Io credo che Paolo, pur essendo il primogenito e quello che più di tutti godette di un più lungo periodo di tranquillità, sia morto senza aver conosciuto l’amore. In casa nostra era proibito parlare di certi argomenti, e l’amore era tra questi, ma io ricorderei qualche episodio o qualche accenno riguardanti Paolo. E invece l’ho nella memoria assorbito totalmente dapprima dal lavoro e dallo studio e poi dall’ansia comune. L’ansia che anche a noi, suoi fratelli e sue sorelle, negò la giovinezza e l’amore e perfino di poter sognare un avvenire. Dal 1938 in poi, per cinque anni, noi vivemmo in un tempo senza futuro, un oscuro presente sul quale gravava, confuso e indistinto, l’incubo che ci ghermì dopo l’8 settembre 1943. Mio fratello Roberto a 15 anni dovette interrompere gli studi e occuparsi. Quanto mio padre guadagnava non era allora, come in genere non lo fu mai, sufficiente a garantire alla nostra famiglia, dal 1925 composta di otto persone, un livello di vita anche modesto. La prima retribuzione di Roberto fu di duecento lire mensili. Roberto era un giovane pratico, allegro, amante della vita. A mano a mano che nostro padre e nostra madre reagivano sempre meno all’incubo che premeva attorno a noi, egli divenne se non il perno colui che più di ogni altro sapeva sobbarcarsi le responsabilità della famiglia. Fu Roberto a prendere iniziative che tante volte ci procurarono il pane e ci tolsero da situazioni angosciose. Egli era tutt’altro che un contemplativo e se avesse potuto ultimare gli studi probabilmente non avrebbe ottenuto lo stesso successo di Paolo e non certo perché avesse meno intelligenza. Aveva un carattere poco metodico, estroso, dell’uomo dalla personalità ricca di buon senso e di idee. Giorgio fu l’ultimo nato. Dall’età della ragione in poi crebbe nell’incubo. Gli ultimi nove mesi della sua esistenza li visse chiuso tra le mura dell’appartamento di via Montallegro nel rione di San Martino dove avevamo trovato alloggio e rifugio. Per nove lunghi mesi fu segregato dalla società e dalla vita. Era divenuto nervoso fino all’esasperazione e durante i bombardamenti aerei veniva colto da crisi che lo lasciavano esausto. Noi, sue sorelle, lo provvedevamo di libri: ci chiedeva in continuazione volumi di storia in particolare del primo Risorgimento. Era divenuto un profondo conoscitore delle biografie di Mazzini e di Garibaldi. Negli ultimi tempi aveva cominciato a mandare a memoria perfino un dizionario e al mattino quando veniva ad aiutarci in cucina ci chiedeva il significato delle parole più astruse e meno correnti che riusciva a trovare, divertendosi a metterci nell’imbarazzo. Gli fornivamo l’occasione per lunghe dissertazioni che nascevano dal bisogno che era in lui, e che noi comprendevamo, di sentirsi vivo attraverso le sue stesse parole. Ma anche quelli erano rari momenti di distensione. Giorgio, minuto per minuto, giorno per giorno, visse nove mesi di terrore. Egli fu tra noi quello che per primo entrò nella nera anticamera della morte e quando la morte giunse egli cedette senza resisterle. Maria Luisa era la sorella maggiore. Una bellissima ragazza, dal carattere assai somigliante per molti aspetti a quello di Roberto. Quando fummo ad Auschwitz e più tardi, divisi dai nostri parenti, a Belsen e a Braunschweig, ella divenne per Bice e per me come una madre. A distanza di quindici anni, talvolta, quando attorno a me regna il silenzio, mi pare di riudire la sua voce, esile e arrochita, levarsi nella baracca, quando cantava per Bice e me, per tenere desta in noi l’assurda speranza di sopravvivere. Una sera, eravamo appena tornate alla stalla di Braunschweig che dividevamo in poche ebree italiane con settecento correligionarie ungheresi, una sorvegliante venne a leggere un elenco di noi deportate. Tra esse vi era quello di Maria Luisa. Nostra sorella si incolonnò con le altre chiamate. Bice e io credevamo che fossero destinate a un turno supplementare di lavoro come spesso accadeva. Non fu dato a nostra sorella il tempo di salutarci. Non la rivedemmo più. Bice, più di ogni altro figlio, rassomigliava a nostra madre. Soprattutto nel carattere. Era la penultima nata. Una bambina ancora ad Auschwitz, a Belsen, a Braunschweig. Per quattro giorni il suo cadavere rimase abbandonato su una panca di legno e alla fine era scomparso sotto la neve. Mio padre Ettore Sonnino e mia madre Giorgina Milani, all’età rispettivamente di sessantaquattro e di cinquantotto anni, furono uccisi nelle camere a gas di Birkenau il 28 ottobre 1944. Paolo, all’età di ventisette anni e Roberto, all’età di ventisei anni, furono uccisi nel mese di novembre. Giorgio, all’età di diciannove anni, fu ucciso pochi giorni dopo i suoi fratelli. Maria Luisa all’età di venticinque anni fu uccisa a Flossenburg il 20 marzo 1945. Bice fu uccisa a Braunschweig nella notte tra il 15 e il 16 gennaio 1945. Aveva ventun anni. Il numero che la morte aveva impresso sul mio braccio, e che ancora porto, è: A26699. Nel settembre del 1950, dopo cinque anni di case di cura e di sanatori, io sola, dell’intera mia famiglia, sono tornata alla vita.

estratto da: http://www.senzapaura.org da «Diario de l mese», 24 gennaio 2003.

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