lunedì 26 gennaio 2015

Piera Sonnino - Questo è Stato 
estratto 5

… Bice si era assai indebolita e, fin dagli ultimi giorni della nostra permanenza a Belsen, era stata colta da un’acutissima dissenteria. Maria Luisa era quella che più resisteva. Fisicamente era dimagrita e il petto e i fianchi le erano spariti, ma il suo cervello e i suoi nervi erano ancora sufficientemente saldi. Molte volte si sforzava di cantare per noi, di infonderci speranza e fiducia. Era più che nostra sorella. Bice e io finimmo per vedere in lei nostra madre. Al mattino, mentre andavamo al lavoro, tentava perfino di distrarci indicandoci ora un palazzo, ora un albero, ora un oggetto qualsiasi. Molte volte i passanti ci tiravano sassi e qualcuno si spinse fino in mezzo a noi per sputarci addosso. Ma esperimentammo anche l’altro aspetto, quello reale, quello non corrotto dell’hitlerismo, della Germania. Un mattino, dopo qualche ora di lavoro, Maria Luisa fu colta da malore. Cadde tra le macerie che stava spalando. Bice e io disperate, per il timore che la neve e il freddo aggravassero le condizioni di nostra sorella, l’aiutammo a rialzarsi e la ricoverammo in un portone. Eravamo lì da qualche minuto divisi tra l’angoscia che le sorveglianti scoprissero la nostra assenza e l’ansia ancor più grave che Maria Luisa peggiorasse, quando il portone che avevamo socchiuso si aprì. Entrò una donna tedesca, un’anziana signora con una corona di capelli bianchi attorno al viso, che reggeva un thermos. Ci fece segno che era per Maria Luisa. Il tè caldo rianimò nostra sorella. La signora cavò da una tasca del grembiule, che portava sotto il pesante cappotto, un po’ di pane e ce lo divise in tre porzioni. Se n’andò con un’ultima occhiata in cui ritrovammo qualcosa di ciò che avevamo perduto.
… Dopo la partenza di Maria Luisa, Bice cominciò a peggiorare. Piangeva spesso e si lamentava. Andava perdendo le forze a vista d’occhio. I suoi diciotto anni parevano essersi contratti, quasi accartocciati, come una foglia d’albero, staccata verde, nella polvere al sole. Andava divenendo sempre di più una creatura senza età, pallida di quel pallore bianco, quasi cartaceo, dei «subumani». Era divenuta esile, si muoveva con lentezza, come se ogni gesto le costasse infinita fatica. Fino a quando ci fu Maria Luisa eravamo in due ad aiutarla: poi rimasi sola. Rimasi sola a trascinarla lungo la strada che conduceva al lavoro, sola a difenderla dalle sorveglianti, sola nel tentativo di evitarle le maggiori fatiche, sola a sforzarmi di trattenere in lei la vita. E anch’io mi scoprivo a compiere il gesto più elementare come se fosse terribilmente complicato e faticoso.

... La sera del 13 gennaio Bice si lamentò più del solito sulla via del ritorno. La dissenteria era continua, inarrestabile; non esisteva posizione che la diminuisse almeno per un attimo. Sul lavoro, per la strada, sulla paglia. Quella sera mia sorella, dopo la prima cucchiaiata di broda, ebbe un conato di vomito, respinse la gamella e andò a gettarsi sul suo putrido giaciglio. Le rimasi vicina fino a quando le ungheresi non mi ordinarono di filare via. Avevo intenzione di rimanere desta per udire se Bice si lamentava, ma ero così spossata che caddi subito in un sonno profondo. All’alba, come al solito, le sorveglianti ci destarono urlando e agitando i bastoni. Accorsi presso Bice: aveva gli occhi aperti e fissava il soffitto. Ebbi la sensazione che non avesse dormito. Tentai di sollevarla perché si alzasse. Le sorveglianti sul piazzale davano già l’avviso dell’appello. Bice cercò di agevolare il mio sforzo ma ricadde pesantemente. La spronai. Fu inutile. Corsi disperata fuori dalla stalla. Una sorvegliante mosse minacciosamente il bastone verso di me. Piangevo e gridavo per farle comprendere che Bice stava troppo male per poter lavorare quel giorno. La sorvegliante si gettò su di me come una furia. Mi picchiava e io continuavo a gridare, mi batteva sul capo, sul volto, sul petto, e io continuavo a piangere, a gridare, non avvertivo il dolore delle percosse, non sentivo nulla, non ne ho traccia in me, ho soltanto l’angoscia che provavo nella previsione che non fossi riuscita a farmi capire, che la sorvegliante entrasse nella stalla e battesse anche Bice. Riuscii ad afferrare la donna per un braccio e a trascinarla verso la stalla. La sorvegliante finì per intuire ciò che dicevo. Si chinò su Bice, le dette una rapida occhiata, poi, dopo un moto di disgusto, mi cacciò fuori. Mia sorella rimase stesa sulla paglia mentre io, incolonnata con le altre, andavo a lavorare. La giornata fu di una lunghezza lancinante. È difficile trovare parole per descrivere come la misura del tempo sia semplicemente una convenzione: come esista dentro di noi un tempo che può restringersi e dilatarsi all’infinito sfuggendo a ogni metro. Quando venne la sera ero più spossata dall’attesa che dalla fatica. Bice era nella stessa posizione in cui l’avevo lasciata al mattino. Vicino a lei vi era una gamella piena a metà di broda e un pezzo di pane. Appena mi vide entrare mi indicò l’una e l’altro con un piccolo cenno del capo. Aveva la testa avvolta nel suo cappuccetto blu. La guardai e ansia e speranza per un attimo mi cozzarono dentro. Bice aveva il volto disteso, gli occhi quasi limpidi. Le chiesi come stava. Per la prima volta, dopo molti giorni, mi rispose che stava benissimo. Chiesi a un’ungherese il permesso di dormire accanto a mia sorella. Non ebbi neanche risposta. La donna cadde quasi di schianto sul proprio giaciglio e chiuse gli occhi. Cercai di resistere al sonno. Sapevo che non avrei dovuto dormire. Ma la stanchezza era più forte della volontà. Il sonno era soltanto un rapidissimo chiudere e aprire gli occhi. La notte, dalle tenebre all’alba, durava un attimo. Mi destai al grido delle sorveglianti. Bice era immobile ancora con gli occhi aperti in quella strana fissità. La paglia sotto di lei e attorno a lei era marcita per la dissenteria. Con un filo di voce insistette a dirmi che stava benissimo. Pareva avesse raggiunto uno stadio in cui non c’era più sofferenza. Al termine dell’appello mi prosternai dinanzi alla sorvegliante che il giorno prima mi aveva battuto, le chiesi che mi facesse rimanere accanto a mia sorella. Ripetevo la parola «morte», la sola che avessi appreso in tedesco. Ero inginocchiata dinanzi a quella donna, col capo piegato fino a toccare con la fronte la terra. Il bastone si abbatté sulle mie spalle e avvertii una fitta al petto. Mamma, mamma..., chiamavo. Mamma, mamma... aiutami. Bice sta morendo, fa che questa donna capisca, che abbia un briciolo di umanità. Ero ancora curva così, prona a terra, quando udii il passo della colonna che si allontanava. Corsi come una pazza accanto a Bice. Bice non mi chiese neppure il motivo per cui non ero andata a lavorare. Le presi la mano e gliela strinsi. Un poco più tardi pensai che sarebbe stato bene ripulire il suo giaciglio e lavarla. L’afferrai con amore sotto le ascelle e stavo per sollevarla quando un lungo rantolo mi paralizzò. Distesi nuovamente Bice e le ripresi la mano. Rimasi così tutto il giorno, senza muovermi, senza parlare, con l’assurda speranza di trasmettere calore e vita a quel corpo. Sapevo ciò che stava per accadere, ma non volevo crederci. Bice era l’ultimo solido frammento del passato che mi rimaneva. Avvertivo con crescente paura i sempre più lunghi periodi di assenza della mia mente, gli abbandoni frequenti, la volontà di vivere sempre più fievole. Conoscevo quei sintomi perché spesso altre ne avevano parlato e sapevo che cosa significassero. Ma finché Bice fosse rimasta con me io sapevo anche che non mi sarei lasciata sopraffare.

…Quando tornarono le ungheresi fui costretta a lasciare mia sorella. Io mi vergogno di scriverlo, ma anche quella sera, nonostante avessi impegnato tutte le mie forze per resistere, mi addormentai. Mi destai all’improvviso oppressa da una sensazione di terrore. L’alba era vicina. Chiamai la signora Foà, la pregai di andare a vedere come stesse Bice. La signora si alzò a fatica, ancora assonnata. Scavalcò il corpo delle altre donne che, nel sonno, si lamentavano e raggiunse il giaciglio di Bice. Si sporse su di esso e rimase un attimo immobile. La vidi stendere una mano per toccare mia sorella. Chiusi gli occhi. Mamma, mamma... imploravo. La signora Foà mi tornò vicino e mi posò una mano sul capo. È morta, disse con un soffio. Accanto a Bice assistetti al levarsi di un grigio giorno di neve. Nel corso della mattina una «kapò» venne a chiedermi le generalità di Bice. Annotò tutto con estrema diligenza su di un registro. Se n’andò senza dare un’occhiata a quel corpo senza vita. Nel pomeriggio vennero a prendere il corpo di Bice. Lo portarono fuori dalla stalla e lo depositarono su una panca accanto alla porta della latrina. Nevicava. Gettarono su mia sorella un sacco che le coprì a mala pena il ventre appiattito. Il volto, nella corona blu del cappuccetto, rimase esposto alla neve e così le mani e le gambe. L’indomani mattina, prima dell’appello, nell’ora in cui ci era consentito andare nella latrina, passai accanto a Bice. Vi ripassai la sera e l’indomani e poi la sera e ancora il giorno dopo e un altro giorno ancora. Dopo quattro giorni ben poco emergeva più di Bice dalla neve. È da quel momento che i miei ricordi si fanno confusi, staccati, impersonali. Il subcosciente li trattiene come un male che cova dentro di me. So che dovrei liberarmene ma non ne sono capace.

estratto da: http://www.senzapaura.org da «Diario de l mese», 24 gennaio 2003.

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