Piera Sonnino - Questo è Stato
estratto 3
…Alla fine di
settembre e ai primi di ottobre fu chiaro che se avessimo tardato anche di un
solo giorno la nostra partenza da Sampierdicanne avremmo corso il rischio di
farci intrappolare dai tedeschi. Più di uno in quella località era a conoscenza
che eravamo ebrei. Roberto decise di chiedere aiuto a una propria collega di
ufficio, la signora Maria Luisa Bancalari. Vincendo le riluttanze della mamma,
preoccupata per il suo viaggio a Genova, andò a trovarla e tornò dicendo che la
signora Bancalari avrebbe provveduto, a mezzo della sua domestica, a trovarci
un alloggio in Val Trebbia e più precisamente in un paesello nei pressi di
Rovegno. Attendemmo con ansia qualche giorno e finalmente la signora Bancalari
ci informò che erano a nostra disposizione alcune camere nell’unico alberghetto
di Pietranera di Rovegno, chiuse da mesi, e che un contadino era disposto a
fornirci una cucina. Un mattino radunammo le nostre cose su un carretto e, a
piedi, partimmo alla volta di Chiavari. Attorno a noi si raccolse un bel po’ di
gente tra curiosa e compassionevole per vedere andare via «la famiglia ebrea».
Ci guardarono con qualcosa negli occhi che non dimenticherò più. Se i miei
fratelli lo avessero chiesto sono certa che ci avrebbero aiutato a mettere le
valigie sul carretto e avrebbero stretto la mano a tutti purché, per primi,
l’avessimo tesa. Mentre ci allontanavamo non potemmo fare a meno di pensare a
quella gente e al fatto che, seppure ognuno di noi valeva una taglia di duemila
lire, nessuno ci aveva denunciato. Gente umile, gente sconosciuta, poverissima,
quella che lasciavamo alle spalle, gente che non possedeva assolutamente nulla
e che ci aveva donato altri mesi di vita. Il viaggio fino a Pietranera di
Rovegno fu pieno di allarmi, pauroso. Ovunque soldati tedeschi e repubblichini.
Ore di spasimo per noi e più ancora per i nostri fratelli che potevano essere
catturati da un momento all’altro. Pietranera era già stata investita
dall’autunno. Le foglie degli alberi erano gialle e i prati mostravano tracce
opulente di verde frammiste a chiazze grigie e marroni.
…In quei nove mesi avvennero due fatti, in se stessi di
scarsa importanza, ma per noi di rilievo. Il 16 agosto 1944, mentre mi trovavo
a far compere al mercato di via XX Settembre, avvertii uno strattone alla borsa
che portavo appesa al braccio e un individuo, lo stesso che me l’aveva
strappata, darsi alla fuga con essa. Alcuni uomini presenti lo rincorsero e
riuscirono a raggiungerlo. La borsa mi fu restituita e mi fu chiesto se
intendevo sporgere denuncia contro il ladro [4]. Avevo già risposto di no quando
intervenne un agente di polizia in borghese. Un tipo straordinariamente
cerimonioso il quale insistette sul mio dovere di cittadina di far punire il
ladro. Io ero gelata dalla paura. Cercai di resistere al poliziotto e, vedendo
inutili le mie fatiche, scoppiai in lacrime. Piangevo disperata perché mi
rendevo conto del pericolo in cui mi sarei cacciata se fossi andata in un
qualsiasi posto di polizia. Mi guardai attorno per scoprire una via di fuga, ma
era impossibile: l’agente, il ladro e io eravamo circondati da un capannello di
curiosi. Tutti e tre ci incamminammo verso il commissariato che allora aveva
sede al primo piano di Palazzo Ducale. L’agente non riusciva a comprendere la
ragione delle mie lacrime e l’addebitava allo shock subito. Dinanzi al
sottufficiale, al momento di declinare le mie generalità, fui assalita da
un’altra ondata di panico. In via Montallegro avevamo detto di chiamarci Melani
ma l’infantile trucco con la polizia non poteva servire. Mi venne chiesta la
carta d’identità. Ero tutta un tremito quando la porsi. Fortunatamente su di
essa vi era ancora l’indirizzo di via Montello che avevamo abbandonato dopo lo
sfollamento a Chiavari senza più tornarvi. Il sottufficiale registrò
freddamente nome, cognome e indirizzo e m’invitò a sottoscrivere il verbale. Lo
firmai e non so come riuscii a padroneggiare per quell’attimo la mia mano.
Domandai se potevo andarmene e mi fu risposto di sì. Lasciai il commissariato
di corsa, col cuore in gola. Mi imbattei in piazza De Ferrari in Paolo al quale
raccontai l’accaduto. Mio fratello mi rimproverò piuttosto duramente per la mia
disattenzione. Gli feci notare che non era colpa mia e lui disse che lo era: se
fossi stata più attenta il ladro non mi avrebbe borseggiato. L’indomani la
notizia era sui giornali. Quindici righe su una colonna con le mie generalità
complete. Per molto tempo fui attanagliata dal sospetto che quella notizia
avesse messo i tedeschi sulle nostre tracce. Sospetto assurdo, come provano gli
avvenimenti seguiti, ma da quale tardai a liberarmi. Del secondo episodio fu
protagonista papà. Alla fine di settembre rimase vittima di un incidente che
avrebbe potuto accelerare il tempo della nostra cattura. Quel giorno egli era
uscito per una breve passeggiata quando casualmente cadde e si fratturò una
spalla. Dovette difendersi più che dal dolore dai soccorritori che intendevano
trasportarlo all’ospedale di San Martino lontano poche centinaia di metri dal
luogo dove era caduto. Finalmente fu portato a casa. Ci rivolgemmo al
professore Pasquale Cattaneo, di cui sapevamo la fiducia che meritava, ed egli
ci promise che avrebbe inviato subito un collega. La spalla di papà fu
ingessata e tale era ancora la mattina del 12 ottobre e nella notte tra il 27 e
il 28 dello stesso mese, la lunga, tormentosa notte di Auschwitz.
… Chi comandò il nostro arresto fu Brenno Grandi, che riuscì
a essere assolto nel processo che subì nel 1947 perché poté dimostrare di avere
infierito sugli ebrei non a scopo di lucro; ma essi, quei quattro agenti che
eseguirono i suoi ordini, ovunque oggi siano, sappiano che dal momento in cui
ci trascinarono fuori dalla nostra casa, in quella prima e unica volta che ci
videro, dettero l’avvio al nostro viaggio verso la morte. Essi stessi per me,
oggi, hanno nella memoria il volto della morte.
… A Marassi fummo divisi. Nostro padre e i nostri fratelli
condotti nel braccio dei detenuti e noi, nostra madre, Maria e io, rinchiuse in
un camerone dove già si trovavano altre donne. Era un camerone squallido e
tetro. La luce vi pioveva da una stretta feritoia posta in alto. L’aria era
pesante, irrespirabile. Noi quattro ci radunammo in un angolo, lontano dalle
altre sventurate. Era facile capire chi fossero osservando come si comportavano
e, più ancora, ascoltando i loro discorsi, inframmezzati da brevi risate
nervose. La mamma ci disse a bassa voce di non guardarle. Mia madre era
letteralmente sconvolta per il luogo in cui si trovava. Avevamo paventato e
temuto la cattura; entro noi stessi, forse, avevamo sempre saputo che un giorno
o l’altro l’evento sarebbe accaduto, ma la sua realtà, ora in quella cella, era
tale da sovvertire ogni previsione. Almeno così ci parve allora. Le carceri di
Marassi ci parvero già l’incubo e invece furono soltanto una tappa di
avvicinamento a esso. Ma era la prima realtà dell’incubo per noi. Più ancora
della Casa dello studente dove non avevamo fatto a tempo a rinchiuderci neppure
per un attimo in noi stessi. Le donne, sulle prime, dimostrarono della
curiosità nei nostri confronti, vollero sapere chi fossimo e una di esse disse
che non sapeva che vi fosse un reato «ebreo». Insistettero per parlare con noi
ma, di fronte al nostro silenzio, finirono per lasciarci in pace. Credo che
provassero pena per noi. Avevamo messo nostra madre al centro e noi le stavamo
attorno, strette l’una all’altra. Io sentivo riacutizzarsi le fitte e i dolori
di un ascesso glandolare per cui ero in cura da qualche tempo, ma mi vergognavo
di parlarne. Mamma se ne ricordò all’improvviso, all’ora in cui ero solita
prendere le medicine. Mi guardò a lungo e mi strinse la mano. I sette giorni
trascorsi a Marassi ci parvero interminabili.
Nessun commento:
Posta un commento