sabato 24 gennaio 2015

Piera Sonnino - Questo è Stato
 estratto 3

…Alla fine di settembre e ai primi di ottobre fu chiaro che se avessimo tardato anche di un solo giorno la nostra partenza da Sampierdicanne avremmo corso il rischio di farci intrappolare dai tedeschi. Più di uno in quella località era a conoscenza che eravamo ebrei. Roberto decise di chiedere aiuto a una propria collega di ufficio, la signora Maria Luisa Bancalari. Vincendo le riluttanze della mamma, preoccupata per il suo viaggio a Genova, andò a trovarla e tornò dicendo che la signora Bancalari avrebbe provveduto, a mezzo della sua domestica, a trovarci un alloggio in Val Trebbia e più precisamente in un paesello nei pressi di Rovegno. Attendemmo con ansia qualche giorno e finalmente la signora Bancalari ci informò che erano a nostra disposizione alcune camere nell’unico alberghetto di Pietranera di Rovegno, chiuse da mesi, e che un contadino era disposto a fornirci una cucina. Un mattino radunammo le nostre cose su un carretto e, a piedi, partimmo alla volta di Chiavari. Attorno a noi si raccolse un bel po’ di gente tra curiosa e compassionevole per vedere andare via «la famiglia ebrea». Ci guardarono con qualcosa negli occhi che non dimenticherò più. Se i miei fratelli lo avessero chiesto sono certa che ci avrebbero aiutato a mettere le valigie sul carretto e avrebbero stretto la mano a tutti purché, per primi, l’avessimo tesa. Mentre ci allontanavamo non potemmo fare a meno di pensare a quella gente e al fatto che, seppure ognuno di noi valeva una taglia di duemila lire, nessuno ci aveva denunciato. Gente umile, gente sconosciuta, poverissima, quella che lasciavamo alle spalle, gente che non possedeva assolutamente nulla e che ci aveva donato altri mesi di vita. Il viaggio fino a Pietranera di Rovegno fu pieno di allarmi, pauroso. Ovunque soldati tedeschi e repubblichini. Ore di spasimo per noi e più ancora per i nostri fratelli che potevano essere catturati da un momento all’altro. Pietranera era già stata investita dall’autunno. Le foglie degli alberi erano gialle e i prati mostravano tracce opulente di verde frammiste a chiazze grigie e marroni.
…In quei nove mesi avvennero due fatti, in se stessi di scarsa importanza, ma per noi di rilievo. Il 16 agosto 1944, mentre mi trovavo a far compere al mercato di via XX Settembre, avvertii uno strattone alla borsa che portavo appesa al braccio e un individuo, lo stesso che me l’aveva strappata, darsi alla fuga con essa. Alcuni uomini presenti lo rincorsero e riuscirono a raggiungerlo. La borsa mi fu restituita e mi fu chiesto se intendevo sporgere denuncia contro il ladro [4]. Avevo già risposto di no quando intervenne un agente di polizia in borghese. Un tipo straordinariamente cerimonioso il quale insistette sul mio dovere di cittadina di far punire il ladro. Io ero gelata dalla paura. Cercai di resistere al poliziotto e, vedendo inutili le mie fatiche, scoppiai in lacrime. Piangevo disperata perché mi rendevo conto del pericolo in cui mi sarei cacciata se fossi andata in un qualsiasi posto di polizia. Mi guardai attorno per scoprire una via di fuga, ma era impossibile: l’agente, il ladro e io eravamo circondati da un capannello di curiosi. Tutti e tre ci incamminammo verso il commissariato che allora aveva sede al primo piano di Palazzo Ducale. L’agente non riusciva a comprendere la ragione delle mie lacrime e l’addebitava allo shock subito. Dinanzi al sottufficiale, al momento di declinare le mie generalità, fui assalita da un’altra ondata di panico. In via Montallegro avevamo detto di chiamarci Melani ma l’infantile trucco con la polizia non poteva servire. Mi venne chiesta la carta d’identità. Ero tutta un tremito quando la porsi. Fortunatamente su di essa vi era ancora l’indirizzo di via Montello che avevamo abbandonato dopo lo sfollamento a Chiavari senza più tornarvi. Il sottufficiale registrò freddamente nome, cognome e indirizzo e m’invitò a sottoscrivere il verbale. Lo firmai e non so come riuscii a padroneggiare per quell’attimo la mia mano. Domandai se potevo andarmene e mi fu risposto di sì. Lasciai il commissariato di corsa, col cuore in gola. Mi imbattei in piazza De Ferrari in Paolo al quale raccontai l’accaduto. Mio fratello mi rimproverò piuttosto duramente per la mia disattenzione. Gli feci notare che non era colpa mia e lui disse che lo era: se fossi stata più attenta il ladro non mi avrebbe borseggiato. L’indomani la notizia era sui giornali. Quindici righe su una colonna con le mie generalità complete. Per molto tempo fui attanagliata dal sospetto che quella notizia avesse messo i tedeschi sulle nostre tracce. Sospetto assurdo, come provano gli avvenimenti seguiti, ma da quale tardai a liberarmi. Del secondo episodio fu protagonista papà. Alla fine di settembre rimase vittima di un incidente che avrebbe potuto accelerare il tempo della nostra cattura. Quel giorno egli era uscito per una breve passeggiata quando casualmente cadde e si fratturò una spalla. Dovette difendersi più che dal dolore dai soccorritori che intendevano trasportarlo all’ospedale di San Martino lontano poche centinaia di metri dal luogo dove era caduto. Finalmente fu portato a casa. Ci rivolgemmo al professore Pasquale Cattaneo, di cui sapevamo la fiducia che meritava, ed egli ci promise che avrebbe inviato subito un collega. La spalla di papà fu ingessata e tale era ancora la mattina del 12 ottobre e nella notte tra il 27 e il 28 dello stesso mese, la lunga, tormentosa notte di Auschwitz.
… Chi comandò il nostro arresto fu Brenno Grandi, che riuscì a essere assolto nel processo che subì nel 1947 perché poté dimostrare di avere infierito sugli ebrei non a scopo di lucro; ma essi, quei quattro agenti che eseguirono i suoi ordini, ovunque oggi siano, sappiano che dal momento in cui ci trascinarono fuori dalla nostra casa, in quella prima e unica volta che ci videro, dettero l’avvio al nostro viaggio verso la morte. Essi stessi per me, oggi, hanno nella memoria il volto della morte.
… A Marassi fummo divisi. Nostro padre e i nostri fratelli condotti nel braccio dei detenuti e noi, nostra madre, Maria e io, rinchiuse in un camerone dove già si trovavano altre donne. Era un camerone squallido e tetro. La luce vi pioveva da una stretta feritoia posta in alto. L’aria era pesante, irrespirabile. Noi quattro ci radunammo in un angolo, lontano dalle altre sventurate. Era facile capire chi fossero osservando come si comportavano e, più ancora, ascoltando i loro discorsi, inframmezzati da brevi risate nervose. La mamma ci disse a bassa voce di non guardarle. Mia madre era letteralmente sconvolta per il luogo in cui si trovava. Avevamo paventato e temuto la cattura; entro noi stessi, forse, avevamo sempre saputo che un giorno o l’altro l’evento sarebbe accaduto, ma la sua realtà, ora in quella cella, era tale da sovvertire ogni previsione. Almeno così ci parve allora. Le carceri di Marassi ci parvero già l’incubo e invece furono soltanto una tappa di avvicinamento a esso. Ma era la prima realtà dell’incubo per noi. Più ancora della Casa dello studente dove non avevamo fatto a tempo a rinchiuderci neppure per un attimo in noi stessi. Le donne, sulle prime, dimostrarono della curiosità nei nostri confronti, vollero sapere chi fossimo e una di esse disse che non sapeva che vi fosse un reato «ebreo». Insistettero per parlare con noi ma, di fronte al nostro silenzio, finirono per lasciarci in pace. Credo che provassero pena per noi. Avevamo messo nostra madre al centro e noi le stavamo attorno, strette l’una all’altra. Io sentivo riacutizzarsi le fitte e i dolori di un ascesso glandolare per cui ero in cura da qualche tempo, ma mi vergognavo di parlarne. Mamma se ne ricordò all’improvviso, all’ora in cui ero solita prendere le medicine. Mi guardò a lungo e mi strinse la mano. I sette giorni trascorsi a Marassi ci parvero interminabili.


estratto da: http://www.senzapaura.org da «Diario de l mese», 24 gennaio 2003.

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