sabato 31 gennaio 2015

TRANQUILLO, IL PEGGIO E’ PASSATO.

Vanity Fair Febbraio 2015




Cucciolo di Tigre in uno Zoo di Berlino.
La buona notizia è che per la sua specie
in India in quattro anni si è passati
da 1.706 a 2.226 esemplari + del 30%
Il merito va al ripopolamento e lotta al bracconaggio con 10 mila telecamere nelle riserve.

venerdì 30 gennaio 2015

VIVERE...CHE FATICA!


Vivere 
è passato tanto tempo 
Vivere! 
è un ricordo senza tempo 
Vivere 
è un po' come perder tempo 
Vivere.....e Sorridere!....... 
VIVERE! 
è passato tanto tempo 
VIVERE! 
è un ricordo senza tempo 
VIVERE! 
è un po' come perder tempo 
VIVERE....e Sorridere dei guai 
così come non hai fatto mai 
e poi pensare che domani sarà sempre meglio 
OGGI NON HO TEMPO 
OGGI VOGLIO STARE SPENTO! 

Vivere! 
e sperare di star meglio 
Vivere 
e non essere mai contento 
Vivere 
come stare sempre al vento 
VIVERE!......COME RIDERE!!! 

VIVERE! 
anche se sei morto dentro 
VIVERE! 
e devi essere sempre contento! 
VIVERE! 
è come un comandamento 
VIVERE..... o SOPRAVVIVERE.... 
senza perdersi d'animo mai 
e combattere e lottare contro tutto contro!..... 
OGGI NON HO TEMPO 
OGGI VOGLIO STARE SPENTO!..... 

VIVERE 
e sperare di star meglio 
VIVERE VIVERE 
e non essere mai contento 
VIVERE VIVERE 
e restare sempre al vento a 
VIVERE.....e sorridere dei guai 
proprio (così) come non hai fatto mai 
e pensare che domani sarà sempre meglio!!!!!


Vasco Rossi



mercoledì 28 gennaio 2015

Quiz...



Occasione per incontrare il mondo che evolve, 
la vita che è passata, quella che sta passando, 
incrociare realtà diverse,
la neo laureata che ci crede, o che vuole rendersi conto di come funziona,
il sognatore, che sta qui, sta studiando per un altra professione 
ma sogna di fare il vigile del fuoco,
la mamma che spera di poter offrire un futuro più sicuro ai suoi figli,
colei che ha impiegato tutto il suo tempo per trovare un posto nel mondo, credendo di non doversi preoccupare perché la cosa più difficile, qualcuno in cui rispecchiarsi, l'aveva già trovato...
quella che dice "non ho studiato ma mi butto",
c'è quello che pur di fare il filo ad una non si accorge di aver fatto la fila sbagliata,
e la lista potrebbe continuare
ma chi può dire qual'è la strada sbagliata,
chi può dire chi sta battendo una direzione che non lo porterà da nessuna parte?

Io no, di certo.

martedì 27 gennaio 2015

Piera Sonnino - Questo è Stato 
estratto 6

… Anche i ricordi dei giorni successivi sono confusi. Dal pagliericcio sul quale ero distesa scorgevo attraverso i vetri di una finestra pile di casse e divise kaki, mi arrivava all’orecchio un vociare confuso, rombi di motori sovrastavano all’improvviso ogni altro rumore, rombi che rimanevano a lungo nella mia mente. Avevo il corpo dolorante e la febbre altissima. Ero incapace di qualsiasi movimento e di qualsiasi pensiero. Avvertivo al mio fianco, nella stessa baracca, la presenza di altre donne ma non potrei dire chi e quante erano. Il velo di incoscienza si squarcia allorché una voce mi annuncia che l’indomani sarò trasportata all’ospedale. Il terrore mi squassa: urlo. Non voglio andare all’ospedale. So che cosa significa andare all’ospedale. Non voglio essere gasata. Tento di alzarmi per dimostrare che sto benissimo. Posso lavorare, certo che posso, sto in piedi, agito le braccia, non ho bisogno di cure. Perdo nuovamente la consapevolezza di me e del tempo. Un’altra immagine: l’indomani. Due uomini entrano con una barella e si dirigono verso di me. Ricomincio a urlare. Mi afferro ai bordi del pagliericcio, alle lenzuola. Non sono malata, mi sento benissimo. Mi sento forte. Non sono mai stata così ricca di energie. Per pietà, risparmiatemi. I due uomini mi sono vicini. Chiamo la mamma, Roberto, Paolo che mi vengano a difendere, perché impediscano a quei due di portarmi via. Ho l’impressione di lottare come una belva per difendere la mia vita e invece i due uomini mi sollevano senza alcuno sforzo e mi caricano sulla barella. Continuo urlare. Tutti i miei sensi sono dolorosamente acutizzati. L’autoambulanza corre. Un’ampia scalinata. Corsie bianche. Un letto. Cado ancora nell’incoscienza. Una mano fresca sulla fronte. Riapro gli occhi. Un’infermiera è curva su di me. «Come stai?», mi chiede in italiano. Il primo mio pensiero è nuovamente percorso da scariche di terrore. «Sto benissimo. Posso lavorare. Mi faccia alzare. Vado subito al lavoro». L’infermiera non comprende. Ricordo il suo viso chino quasi a toccare il mio. «Ti ho chiesto come ti senti!». Scoppio a piangere. «Lei è italiana come me», singhiozzo, «la prego mi faccia andare via di qui. Mi faccia tornare in baracca. Posso lavorare. Non voglio essere gasata». Gli occhi dell’infermiera si dilatano. In quel torbido crepuscolo della mia mente li vedo diventare grandi, enormi. Pieni di pioggia. Due braccia mi stringono e un petto accoglie la mia testa rasata, il teschio che è il mio viso. L’infermiera comincia a parlare. Ogni sua parola mi riporta lentamente alla vita. Siamo al 17 maggio, mi dice. La guerra è finita da nove giorni. Qui sei nell’ospedale di Altona, ad Amburgo. Ci sei entrata il 9 maggio. Tento di scuotermi. No, dico, è impossibile. La guerra non è finita. Mi dica la verità, non m’illuda. Mi dica che devo morire piuttosto. L’infermiera mi accarezza il capo. La guerra è finita, insiste. Mi lascia un attimo: ritorna con sigarette, cioccolata, biscotti americani, me li sparge sul letto. Comincio a ridere. Brava, applaude l’infermiera, così. Così. Guardati attorno. Guarda che pulizia. Stamattina sembravi sveglia quando i medici sono venuti a visitarti. Di’, che forse i tedeschi ti manderebbero tanti medici? Ci credi ora che la guerra è finita? Io rido, ci credo, ci credo. Fatemi alzare. Fatemi tornare a casa. Forse i miei sono già in viaggio per l’Italia. I miei. Una nube. L’infermiera mi dà qualcosa da bere. Sta’ tranquilla adesso, mi sussurra. Cerca di dormire. Sei malata. Molto malata. Ma non morirai e potrai tornare a casa. Come i tuoi. Il 26 agosto, grande giornata. Con altri italiani lascio in barella l’ospedale di Amburgo. L’infermiera viene a salutarmi. Tra un paio di giorni sarai a casa. Un treno ospedale ci attende in stazione. Il convoglio parte quasi subito. Un’oscura e profonda felicità mi pervade e quasi alimenta la speranza di ritrovare i miei. La mente è ancora così debole che dico i miei e penso a tutti: papà, mamma, Roberto, Giorgio, Maria Luisa, Bice... Anche Bice. Solo a tratti un nero ricordo mi travaglia. Una panca e sopra un cumulo di neve. Il cielo plumbeo.

Dal memoriale di Piera Sonnino pubblicato per la prima volta da «Diario del mese», 24 gennaio 2003
Quindi nel 2004 come volume dalla casa editrice il saggiatore.
estratto da: http://www.senzapaura.org da «Diario de l mese», 24 gennaio 2003.


A distanza di dodici anni da quando ho letto la prima volta questa storia mi prende una stretta al cuore, mi sento soffocare e piango come se conoscessi il male per la prima volta ma siccome fortunatamente non è la mia famiglia mi zittisco con doveroso rispetto. 

lunedì 26 gennaio 2015

Piera Sonnino - Questo è Stato 
estratto 5

… Bice si era assai indebolita e, fin dagli ultimi giorni della nostra permanenza a Belsen, era stata colta da un’acutissima dissenteria. Maria Luisa era quella che più resisteva. Fisicamente era dimagrita e il petto e i fianchi le erano spariti, ma il suo cervello e i suoi nervi erano ancora sufficientemente saldi. Molte volte si sforzava di cantare per noi, di infonderci speranza e fiducia. Era più che nostra sorella. Bice e io finimmo per vedere in lei nostra madre. Al mattino, mentre andavamo al lavoro, tentava perfino di distrarci indicandoci ora un palazzo, ora un albero, ora un oggetto qualsiasi. Molte volte i passanti ci tiravano sassi e qualcuno si spinse fino in mezzo a noi per sputarci addosso. Ma esperimentammo anche l’altro aspetto, quello reale, quello non corrotto dell’hitlerismo, della Germania. Un mattino, dopo qualche ora di lavoro, Maria Luisa fu colta da malore. Cadde tra le macerie che stava spalando. Bice e io disperate, per il timore che la neve e il freddo aggravassero le condizioni di nostra sorella, l’aiutammo a rialzarsi e la ricoverammo in un portone. Eravamo lì da qualche minuto divisi tra l’angoscia che le sorveglianti scoprissero la nostra assenza e l’ansia ancor più grave che Maria Luisa peggiorasse, quando il portone che avevamo socchiuso si aprì. Entrò una donna tedesca, un’anziana signora con una corona di capelli bianchi attorno al viso, che reggeva un thermos. Ci fece segno che era per Maria Luisa. Il tè caldo rianimò nostra sorella. La signora cavò da una tasca del grembiule, che portava sotto il pesante cappotto, un po’ di pane e ce lo divise in tre porzioni. Se n’andò con un’ultima occhiata in cui ritrovammo qualcosa di ciò che avevamo perduto.
… Dopo la partenza di Maria Luisa, Bice cominciò a peggiorare. Piangeva spesso e si lamentava. Andava perdendo le forze a vista d’occhio. I suoi diciotto anni parevano essersi contratti, quasi accartocciati, come una foglia d’albero, staccata verde, nella polvere al sole. Andava divenendo sempre di più una creatura senza età, pallida di quel pallore bianco, quasi cartaceo, dei «subumani». Era divenuta esile, si muoveva con lentezza, come se ogni gesto le costasse infinita fatica. Fino a quando ci fu Maria Luisa eravamo in due ad aiutarla: poi rimasi sola. Rimasi sola a trascinarla lungo la strada che conduceva al lavoro, sola a difenderla dalle sorveglianti, sola nel tentativo di evitarle le maggiori fatiche, sola a sforzarmi di trattenere in lei la vita. E anch’io mi scoprivo a compiere il gesto più elementare come se fosse terribilmente complicato e faticoso.

... La sera del 13 gennaio Bice si lamentò più del solito sulla via del ritorno. La dissenteria era continua, inarrestabile; non esisteva posizione che la diminuisse almeno per un attimo. Sul lavoro, per la strada, sulla paglia. Quella sera mia sorella, dopo la prima cucchiaiata di broda, ebbe un conato di vomito, respinse la gamella e andò a gettarsi sul suo putrido giaciglio. Le rimasi vicina fino a quando le ungheresi non mi ordinarono di filare via. Avevo intenzione di rimanere desta per udire se Bice si lamentava, ma ero così spossata che caddi subito in un sonno profondo. All’alba, come al solito, le sorveglianti ci destarono urlando e agitando i bastoni. Accorsi presso Bice: aveva gli occhi aperti e fissava il soffitto. Ebbi la sensazione che non avesse dormito. Tentai di sollevarla perché si alzasse. Le sorveglianti sul piazzale davano già l’avviso dell’appello. Bice cercò di agevolare il mio sforzo ma ricadde pesantemente. La spronai. Fu inutile. Corsi disperata fuori dalla stalla. Una sorvegliante mosse minacciosamente il bastone verso di me. Piangevo e gridavo per farle comprendere che Bice stava troppo male per poter lavorare quel giorno. La sorvegliante si gettò su di me come una furia. Mi picchiava e io continuavo a gridare, mi batteva sul capo, sul volto, sul petto, e io continuavo a piangere, a gridare, non avvertivo il dolore delle percosse, non sentivo nulla, non ne ho traccia in me, ho soltanto l’angoscia che provavo nella previsione che non fossi riuscita a farmi capire, che la sorvegliante entrasse nella stalla e battesse anche Bice. Riuscii ad afferrare la donna per un braccio e a trascinarla verso la stalla. La sorvegliante finì per intuire ciò che dicevo. Si chinò su Bice, le dette una rapida occhiata, poi, dopo un moto di disgusto, mi cacciò fuori. Mia sorella rimase stesa sulla paglia mentre io, incolonnata con le altre, andavo a lavorare. La giornata fu di una lunghezza lancinante. È difficile trovare parole per descrivere come la misura del tempo sia semplicemente una convenzione: come esista dentro di noi un tempo che può restringersi e dilatarsi all’infinito sfuggendo a ogni metro. Quando venne la sera ero più spossata dall’attesa che dalla fatica. Bice era nella stessa posizione in cui l’avevo lasciata al mattino. Vicino a lei vi era una gamella piena a metà di broda e un pezzo di pane. Appena mi vide entrare mi indicò l’una e l’altro con un piccolo cenno del capo. Aveva la testa avvolta nel suo cappuccetto blu. La guardai e ansia e speranza per un attimo mi cozzarono dentro. Bice aveva il volto disteso, gli occhi quasi limpidi. Le chiesi come stava. Per la prima volta, dopo molti giorni, mi rispose che stava benissimo. Chiesi a un’ungherese il permesso di dormire accanto a mia sorella. Non ebbi neanche risposta. La donna cadde quasi di schianto sul proprio giaciglio e chiuse gli occhi. Cercai di resistere al sonno. Sapevo che non avrei dovuto dormire. Ma la stanchezza era più forte della volontà. Il sonno era soltanto un rapidissimo chiudere e aprire gli occhi. La notte, dalle tenebre all’alba, durava un attimo. Mi destai al grido delle sorveglianti. Bice era immobile ancora con gli occhi aperti in quella strana fissità. La paglia sotto di lei e attorno a lei era marcita per la dissenteria. Con un filo di voce insistette a dirmi che stava benissimo. Pareva avesse raggiunto uno stadio in cui non c’era più sofferenza. Al termine dell’appello mi prosternai dinanzi alla sorvegliante che il giorno prima mi aveva battuto, le chiesi che mi facesse rimanere accanto a mia sorella. Ripetevo la parola «morte», la sola che avessi appreso in tedesco. Ero inginocchiata dinanzi a quella donna, col capo piegato fino a toccare con la fronte la terra. Il bastone si abbatté sulle mie spalle e avvertii una fitta al petto. Mamma, mamma..., chiamavo. Mamma, mamma... aiutami. Bice sta morendo, fa che questa donna capisca, che abbia un briciolo di umanità. Ero ancora curva così, prona a terra, quando udii il passo della colonna che si allontanava. Corsi come una pazza accanto a Bice. Bice non mi chiese neppure il motivo per cui non ero andata a lavorare. Le presi la mano e gliela strinsi. Un poco più tardi pensai che sarebbe stato bene ripulire il suo giaciglio e lavarla. L’afferrai con amore sotto le ascelle e stavo per sollevarla quando un lungo rantolo mi paralizzò. Distesi nuovamente Bice e le ripresi la mano. Rimasi così tutto il giorno, senza muovermi, senza parlare, con l’assurda speranza di trasmettere calore e vita a quel corpo. Sapevo ciò che stava per accadere, ma non volevo crederci. Bice era l’ultimo solido frammento del passato che mi rimaneva. Avvertivo con crescente paura i sempre più lunghi periodi di assenza della mia mente, gli abbandoni frequenti, la volontà di vivere sempre più fievole. Conoscevo quei sintomi perché spesso altre ne avevano parlato e sapevo che cosa significassero. Ma finché Bice fosse rimasta con me io sapevo anche che non mi sarei lasciata sopraffare.

…Quando tornarono le ungheresi fui costretta a lasciare mia sorella. Io mi vergogno di scriverlo, ma anche quella sera, nonostante avessi impegnato tutte le mie forze per resistere, mi addormentai. Mi destai all’improvviso oppressa da una sensazione di terrore. L’alba era vicina. Chiamai la signora Foà, la pregai di andare a vedere come stesse Bice. La signora si alzò a fatica, ancora assonnata. Scavalcò il corpo delle altre donne che, nel sonno, si lamentavano e raggiunse il giaciglio di Bice. Si sporse su di esso e rimase un attimo immobile. La vidi stendere una mano per toccare mia sorella. Chiusi gli occhi. Mamma, mamma... imploravo. La signora Foà mi tornò vicino e mi posò una mano sul capo. È morta, disse con un soffio. Accanto a Bice assistetti al levarsi di un grigio giorno di neve. Nel corso della mattina una «kapò» venne a chiedermi le generalità di Bice. Annotò tutto con estrema diligenza su di un registro. Se n’andò senza dare un’occhiata a quel corpo senza vita. Nel pomeriggio vennero a prendere il corpo di Bice. Lo portarono fuori dalla stalla e lo depositarono su una panca accanto alla porta della latrina. Nevicava. Gettarono su mia sorella un sacco che le coprì a mala pena il ventre appiattito. Il volto, nella corona blu del cappuccetto, rimase esposto alla neve e così le mani e le gambe. L’indomani mattina, prima dell’appello, nell’ora in cui ci era consentito andare nella latrina, passai accanto a Bice. Vi ripassai la sera e l’indomani e poi la sera e ancora il giorno dopo e un altro giorno ancora. Dopo quattro giorni ben poco emergeva più di Bice dalla neve. È da quel momento che i miei ricordi si fanno confusi, staccati, impersonali. Il subcosciente li trattiene come un male che cova dentro di me. So che dovrei liberarmene ma non ne sono capace.

estratto da: http://www.senzapaura.org da «Diario de l mese», 24 gennaio 2003.

domenica 25 gennaio 2015

Piera Sonnino - Questo è Stato  
estratto 4

…Rivedemmo papà e i ragazzi la sera del settimo giorno di detenzione quando fummo fatte uscire dal camerone e trasferite in un sito altrettanto squallido dove trovammo i nostri congiunti con altri nostri correligionari. Papà e Giorgio ci apparvero prossimi al collasso. Giorgio si lanciò tra le braccia della mamma e si strinse a essa disperatamente. Roberto e Paolo si sforzavano, come al solito, di apparire in condizioni di spirito soddisfacenti.
…In viaggio verso l’ignoto. Nel vagone la luce è scarsa, un poco alla volta l’aria diventa irrespirabile. Lo spazio a nostra disposizione è così limitato che non possiamo muoverci. A malapena riusciamo a sederci dandoci il cambio.
… La sensazione più precisa che ricordo è l’orribile certezza di essere nata e di dover vivere per tutta l’eternità tra quegli assi di legno in movimento, in quel lezzo. La mia esistenza è una riva che si allontana sempre di più, che sempre di più diventa come invisibile, avvolta in nebbie pesanti. Il pazzo desiderio di tornarvi, di ridestarmi nel mio letto dopo una notte di incubi, sfuma; a tratti non lo ritrovo più dentro di me. Dalla feritoia del vagone entrano la notte e il gelo quando il convoglio si arresta ancora una volta. Siamo immerse nella sonnolenza che ci ha colto ormai da ore. Quasi la coscienza si fosse ridotta fino a dimenticare se stessa. La sosta si protrae ma non vi prestiamo attenzione. A un tratto al di fuori esplode un inferno di grida e di colpi di fischietto. Sembra che mille cani stiano latrando nella lotta. Le porte dei vagoni vengono aperte con violenza. Fasci di luce ci abbacinano. Soldati in divisa nera e grigia ci urlano parole incomprensibili. Balziamo in piedi, atterrite.
… Una grande spoglia baracca. Una lunga, interminabile notte. Roberto è venuto ad annunciarci che siamo ad Auschwitz. Il nome non ci ha detto nulla. Immaginiamo di essere in Germania e invece siamo in Polonia. Le donne sono raccolte al centro della baracca, unite una all’altra per scaldarsi reciprocamente con il calore dei propri corpi. Noi giovani andiamo spesso a spiare all’esterno guardando attraverso i vetri delle due finestre che si aprono su una parete della baracca. Una muraglia di tenebre. Non riusciamo a vedere nulla. Roberto e Paolo passano da un gruppo all’altro e di tanto in tanto vengono a riferirci ciò che si dice, le notizie che corrono. Giorgio è in grembo a nostra madre, rannicchiato come fosse tornato indietro nel tempo, come chiedesse a chi l’ha generato di riprenderlo in se stessa, di annullarlo gradatamente, di togliergli la vita che gli ha dato. Papà si muove come un automa, come fosse privo di sensi e di volontà. L’ingessatura della spalla gli da più che mai fastidio, ma non se ne lamenta. Forse non se n’accorge neppure. Le nostre percezioni sensorie hanno subito un collasso. Viviamo ai margini della coscienza. In un mondo assurdamente irreale e reale nel contempo. È questa l’ultima notte che la mia famiglia trascorre assieme, unita. Non ve ne saranno altre. Otto creature legate da vincoli di sangue che si stringono d’appresso per l’ultima volta. Rivedo mia madre, mio padre, i miei fratelli, le mie sorelle, io stessa, attingere in noi, dalla nostra unione, l’estremo calore umano che ci è consentito.
… Un sussulto di orrore quando si apre la porta ed entra uno scheletro dagli occhi lucidi che indossa una divisa a strisce cascante sul suo corpo incredibilmente magro. Gli uomini gli si affollano attorno. Lo scheletro ha un secchio in mano. Si trattiene qualche istante poi con il suo passo lento attraversa la baracca e scompare. Ne seguono altri. Sono addetti ai servizi del campo. Turno di notte. Uno di essi si arresta dinanzi a me. Mi indica la caviglia fasciata e mi fa segno di togliere subito le bende. Indugio perché non comprendo. La parola selezione mi colpisce tra le altre. Lo scheletro si rivolge agli uomini e parla loro concitatamente. Parla in tedesco. Vi è chi lo traduce. Occorre far scomparire subito qualsiasi segno che possa rivelare una nostra menomazione fisica. Ferite o malattie. Le selezioni si vanno facendo sempre più severe. Le camere a gas e i forni funzionano a ritmo serrato. Chi non è in grado di lavorare viene eliminato. Mi tolgo subito la garza di carta e la sottile benda che mi stringono la caviglia. Le parole sembrano uscire non dalla bocca di un uomo, ma dalla notte. Imploriamo papà di fare altrettanto con la sua ingessatura. Papà scuote il capo. Sembra che non comprenda ciò che gli diciamo. Si lascia cadere in mezzo a noi e rimane immobile, con gli occhi chiusi. La mamma gli prende una mano e gliela stringe. Roberto, Paolo, Maria Luisa, Bice e io ci raduniamo attorno ai nostri genitori e a Giorgio. Così trascorriamo il resto della notte e qualsiasi cosa dicessi di quel tempo non avrebbe senso tradotto in parole, sarebbe un’esile ombra di quella realtà. Lo ruberei a me stessa, a ciò che è mio, disperatamente soltanto mio. L’alba si preannunciava con grigie dita alle finestre della baracca quando vi irruppero le Ss. Con il mitra spianato, si dispongono attorno a noi, chiudendoci in un cerchio. Tre ufficiali, di cui uno porta i contrassegni di medico, ci ordinano di alzarci e di schierarci in colonna. Mano a mano che ognuno di noi viene chiamato, fa un passo in avanti e il medico lo scruta, lo esamina, gli tasta i muscoli del braccio. Siamo divisi in tre gruppi: i vecchi, i giovani e le giovani. Tutto avviene rapidamente. Non facciamo neppure in tempo a scambiarci un saluto: il gruppo delle giovani è il primo a lasciare la baracca in mezzo a una tempesta di ordini gridati ad alta voce. Non riusciamo neppure a voltarci una volta, una sola volta, per rivedere mamma e papà e i nostri fratelli. Siamo spinti brutalmente all’esterno, nel fango che ci si incolla alle scarpe, nell’aria gelida.
… «Siete italiane?». Ci voltammo. Una donna pallidissima e magra tentò di sorriderci. Disse di essere la dottoressa Morpurgo di Trieste [9]e ci chiese se avevamo notizie di una sua sorella che risiedeva a Genova. Se ci risultava che fosse stata catturata e se aveva viaggiato nel nostro stesso transport. Le rispondemmo di no. La donna parve tranquillizzarsi. S’informò di noi. Le domandammo a nostra volta se avevamo qualche possibilità di vedere i nostri genitori e i nostri fratelli. «I vostri fratelli se sopravviveranno... Vostra madre e vostro padre no. Sono già stati gasati». Indicò la direzione nella quale sorgevano i camini e dove alla notte rosseggiava sinistra la fiamma. Continuò a parlarci tristemente, mentre piangevamo, dicendoci che dovevamo affrontare la realtà così com’era, soffocando ogni sentimento, evitando l’insorgere di qualsiasi illusione, lottando soprattutto per sopravvivere. Ci disse che non era umano piangere la morte dei nostri genitori: in quelle condizioni dovevamo essere lieti che nostro padre e nostra madre fossero periti. Non potevano avere sorte migliore. Bice pareva divenuta di ghiaccio. Mi era accanto e la sentivo gelida. Maria Luisa si scioglieva in lacrime. La dottoressa Morpurgo le carezzava i capelli. Prima che le sorveglianti le ordinassero di allontanarsi ebbe ancora il tempo di annunciarci che probabilmente non saremmo rimaste ad Auschwitz.
…Mentre il treno iniziava la sua corsa Maria Luisa, Bice e io cercammo di dare un’ultima occhiata ad Auschwitz: i nostri genitori e i nostri fratelli erano là. In fondo a ognuna di noi era l’inconfessabile speranza che nonostante tutto, nonostante ciò che avevamo veduto e appreso, mamma e papà fossero ancora vivi, che li avremmo riveduti assieme a Paolo, Roberto e Giorgio. Quel viaggio di due giorni non ha storia. Eravamo tutte allo stremo delle forze. Giacevamo l’una sull’altra senza muoverci, senza parlare. La fame, dopo un periodo di intensità spasmodica, pareva essersi acquietata. A me pareva di non avere più stomaco. Di non avere forma. Senza passato e senza avvenire. Avevo coscienza tuttavia che quello era soltanto l’inizio. Misuravamo, nei paurosi scheletri viventi delle altre compagne che erano con noi, le sofferenze che ancora ci attendevano. Quando il convoglio si arrestò e dopo una lunga sosta furono riaperte le porte dei vagoni, avemmo la sensazione di essere tornate al luogo da cui eravamo partite. Dinanzi a noi era la notte, una notte nebbiosa e gelida, e un mare di fango. La baracca che ci attendeva pareva uscita dai sogni di un folle: invasa da un lezzo che toglieva il respiro, con le cucce a castelli unite l’una all’altra, popolata da fantasmi. Ci pigiammo lì dentro cercando soltanto di darci calore a vicenda. Una di noi nell’attraversare il lager aveva chiesto dove ci trovavamo. «Belsen...», era stata la risposta. Dall’indomani mattina, all’alba, cominciarono gli appelli all’aperto, nell’aria gelida di un inverno rigidissimo. E sperimentammo fino in fondo la crudeltà. Per un futile errore durante il lavoro Maria Luisa fu battuta a sangue sotto i nostri occhi, miei e di Bice.

estratto da: http://www.senzapaura.org da «Diario de l mese», 24 gennaio 2003.

sabato 24 gennaio 2015

Piera Sonnino - Questo è Stato
 estratto 3

…Alla fine di settembre e ai primi di ottobre fu chiaro che se avessimo tardato anche di un solo giorno la nostra partenza da Sampierdicanne avremmo corso il rischio di farci intrappolare dai tedeschi. Più di uno in quella località era a conoscenza che eravamo ebrei. Roberto decise di chiedere aiuto a una propria collega di ufficio, la signora Maria Luisa Bancalari. Vincendo le riluttanze della mamma, preoccupata per il suo viaggio a Genova, andò a trovarla e tornò dicendo che la signora Bancalari avrebbe provveduto, a mezzo della sua domestica, a trovarci un alloggio in Val Trebbia e più precisamente in un paesello nei pressi di Rovegno. Attendemmo con ansia qualche giorno e finalmente la signora Bancalari ci informò che erano a nostra disposizione alcune camere nell’unico alberghetto di Pietranera di Rovegno, chiuse da mesi, e che un contadino era disposto a fornirci una cucina. Un mattino radunammo le nostre cose su un carretto e, a piedi, partimmo alla volta di Chiavari. Attorno a noi si raccolse un bel po’ di gente tra curiosa e compassionevole per vedere andare via «la famiglia ebrea». Ci guardarono con qualcosa negli occhi che non dimenticherò più. Se i miei fratelli lo avessero chiesto sono certa che ci avrebbero aiutato a mettere le valigie sul carretto e avrebbero stretto la mano a tutti purché, per primi, l’avessimo tesa. Mentre ci allontanavamo non potemmo fare a meno di pensare a quella gente e al fatto che, seppure ognuno di noi valeva una taglia di duemila lire, nessuno ci aveva denunciato. Gente umile, gente sconosciuta, poverissima, quella che lasciavamo alle spalle, gente che non possedeva assolutamente nulla e che ci aveva donato altri mesi di vita. Il viaggio fino a Pietranera di Rovegno fu pieno di allarmi, pauroso. Ovunque soldati tedeschi e repubblichini. Ore di spasimo per noi e più ancora per i nostri fratelli che potevano essere catturati da un momento all’altro. Pietranera era già stata investita dall’autunno. Le foglie degli alberi erano gialle e i prati mostravano tracce opulente di verde frammiste a chiazze grigie e marroni.
…In quei nove mesi avvennero due fatti, in se stessi di scarsa importanza, ma per noi di rilievo. Il 16 agosto 1944, mentre mi trovavo a far compere al mercato di via XX Settembre, avvertii uno strattone alla borsa che portavo appesa al braccio e un individuo, lo stesso che me l’aveva strappata, darsi alla fuga con essa. Alcuni uomini presenti lo rincorsero e riuscirono a raggiungerlo. La borsa mi fu restituita e mi fu chiesto se intendevo sporgere denuncia contro il ladro [4]. Avevo già risposto di no quando intervenne un agente di polizia in borghese. Un tipo straordinariamente cerimonioso il quale insistette sul mio dovere di cittadina di far punire il ladro. Io ero gelata dalla paura. Cercai di resistere al poliziotto e, vedendo inutili le mie fatiche, scoppiai in lacrime. Piangevo disperata perché mi rendevo conto del pericolo in cui mi sarei cacciata se fossi andata in un qualsiasi posto di polizia. Mi guardai attorno per scoprire una via di fuga, ma era impossibile: l’agente, il ladro e io eravamo circondati da un capannello di curiosi. Tutti e tre ci incamminammo verso il commissariato che allora aveva sede al primo piano di Palazzo Ducale. L’agente non riusciva a comprendere la ragione delle mie lacrime e l’addebitava allo shock subito. Dinanzi al sottufficiale, al momento di declinare le mie generalità, fui assalita da un’altra ondata di panico. In via Montallegro avevamo detto di chiamarci Melani ma l’infantile trucco con la polizia non poteva servire. Mi venne chiesta la carta d’identità. Ero tutta un tremito quando la porsi. Fortunatamente su di essa vi era ancora l’indirizzo di via Montello che avevamo abbandonato dopo lo sfollamento a Chiavari senza più tornarvi. Il sottufficiale registrò freddamente nome, cognome e indirizzo e m’invitò a sottoscrivere il verbale. Lo firmai e non so come riuscii a padroneggiare per quell’attimo la mia mano. Domandai se potevo andarmene e mi fu risposto di sì. Lasciai il commissariato di corsa, col cuore in gola. Mi imbattei in piazza De Ferrari in Paolo al quale raccontai l’accaduto. Mio fratello mi rimproverò piuttosto duramente per la mia disattenzione. Gli feci notare che non era colpa mia e lui disse che lo era: se fossi stata più attenta il ladro non mi avrebbe borseggiato. L’indomani la notizia era sui giornali. Quindici righe su una colonna con le mie generalità complete. Per molto tempo fui attanagliata dal sospetto che quella notizia avesse messo i tedeschi sulle nostre tracce. Sospetto assurdo, come provano gli avvenimenti seguiti, ma da quale tardai a liberarmi. Del secondo episodio fu protagonista papà. Alla fine di settembre rimase vittima di un incidente che avrebbe potuto accelerare il tempo della nostra cattura. Quel giorno egli era uscito per una breve passeggiata quando casualmente cadde e si fratturò una spalla. Dovette difendersi più che dal dolore dai soccorritori che intendevano trasportarlo all’ospedale di San Martino lontano poche centinaia di metri dal luogo dove era caduto. Finalmente fu portato a casa. Ci rivolgemmo al professore Pasquale Cattaneo, di cui sapevamo la fiducia che meritava, ed egli ci promise che avrebbe inviato subito un collega. La spalla di papà fu ingessata e tale era ancora la mattina del 12 ottobre e nella notte tra il 27 e il 28 dello stesso mese, la lunga, tormentosa notte di Auschwitz.
… Chi comandò il nostro arresto fu Brenno Grandi, che riuscì a essere assolto nel processo che subì nel 1947 perché poté dimostrare di avere infierito sugli ebrei non a scopo di lucro; ma essi, quei quattro agenti che eseguirono i suoi ordini, ovunque oggi siano, sappiano che dal momento in cui ci trascinarono fuori dalla nostra casa, in quella prima e unica volta che ci videro, dettero l’avvio al nostro viaggio verso la morte. Essi stessi per me, oggi, hanno nella memoria il volto della morte.
… A Marassi fummo divisi. Nostro padre e i nostri fratelli condotti nel braccio dei detenuti e noi, nostra madre, Maria e io, rinchiuse in un camerone dove già si trovavano altre donne. Era un camerone squallido e tetro. La luce vi pioveva da una stretta feritoia posta in alto. L’aria era pesante, irrespirabile. Noi quattro ci radunammo in un angolo, lontano dalle altre sventurate. Era facile capire chi fossero osservando come si comportavano e, più ancora, ascoltando i loro discorsi, inframmezzati da brevi risate nervose. La mamma ci disse a bassa voce di non guardarle. Mia madre era letteralmente sconvolta per il luogo in cui si trovava. Avevamo paventato e temuto la cattura; entro noi stessi, forse, avevamo sempre saputo che un giorno o l’altro l’evento sarebbe accaduto, ma la sua realtà, ora in quella cella, era tale da sovvertire ogni previsione. Almeno così ci parve allora. Le carceri di Marassi ci parvero già l’incubo e invece furono soltanto una tappa di avvicinamento a esso. Ma era la prima realtà dell’incubo per noi. Più ancora della Casa dello studente dove non avevamo fatto a tempo a rinchiuderci neppure per un attimo in noi stessi. Le donne, sulle prime, dimostrarono della curiosità nei nostri confronti, vollero sapere chi fossimo e una di esse disse che non sapeva che vi fosse un reato «ebreo». Insistettero per parlare con noi ma, di fronte al nostro silenzio, finirono per lasciarci in pace. Credo che provassero pena per noi. Avevamo messo nostra madre al centro e noi le stavamo attorno, strette l’una all’altra. Io sentivo riacutizzarsi le fitte e i dolori di un ascesso glandolare per cui ero in cura da qualche tempo, ma mi vergognavo di parlarne. Mamma se ne ricordò all’improvviso, all’ora in cui ero solita prendere le medicine. Mi guardò a lungo e mi strinse la mano. I sette giorni trascorsi a Marassi ci parvero interminabili.


estratto da: http://www.senzapaura.org da «Diario de l mese», 24 gennaio 2003.

venerdì 23 gennaio 2015

Piera Sonnino - Questo è Stato 
estratto 2

…Papà e mamma, dopo il matrimonio, si erano trasferiti da Roma a Portici e, quindi, nel 1923, con i figli già nati, Paolo, Roberto, Maria Luisa e io, a Milano. A Milano erano venuti alla luce Bice e Giorgio e questi aveva pochi mesi di vita quando a seguito di un nuovo trasloco ci sistemammo a Genova. Mio padre aveva assunto la gestione di un negozio in piazza Campetto e ciò pareva averci aperto buone prospettive per l’avvenire. Tre anni dopo, però, in seguito alla sua cattiva sorte, papà dovette riprendere l’antica e magra professione di rappresentante di commercio. Nel 1935, come ho già detto, Roberto lasciò gli studi e si impiegò. Di quel periodo ho ricordi assai poco gradevoli. Erano numerosi i giorni in cui non avevamo nulla, nel significato letterale della parola, da mangiare. Parecchie volte, Maria Luisa, Bice e io avemmo come pranzo e cena un gelato che il vecchissimo avvocato Giuseppe Fontana, il quale ci trattava come sue nipotine e mai avrebbe potuto immaginare le nostre condizioni, ci regalava incontrandoci nei giardini di piazza Manin. Difendevamo la nostra miseria dagli estranei con tutti gli espedienti possibili. Eravamo diventati tutti assai bravi nell’impedire a chiunque non appartenesse allo stretto ambito familiare di entrare in casa nostra e di rendersi conto dei vuoti che si erano aperti nei mobili e nelle suppellettili. Per noi ragazze era quella l’età in cui piace invitare a casa le amiche e le compagne di scuola ed essere invitate a nostra volta per giocare, studiare e trascorrere un po’ di tempo assieme. Noi non potevamo aspirare né all’una né all’altra cosa, eravamo costrette a mantenere i rapporti con le nostre coetanee a un livello del tutto superficiale, imparando a contenere e a soffocare qualsiasi impeto di simpatia. Tanto pudore, o tanta vergogna, della nostra miseria oggi non mi appare più del tutto comprensibile se non inquadrato nel dramma economico e sociale che investiva in quell’epoca numerose famiglie della piccola e media borghesia, quelle, almeno, che non erano riuscite o non avevano voluto inserirsi nel regime. Accettavamo di nascondere il nostro vero stato come fosse naturale farlo e se qualcuno ci avesse detto che così facendo obbedivamo ai pregiudizi, all’incapacità di affrontare la realtà e alla fondamentale inerzia delle classi da cui provenivamo e non, invece, alle leggi della dignità e del decoro ci saremmo ribellati. Io per prima. Si aggiunga, inoltre, che noi eravamo originari del Sud, da cui eravamo giunti con tradizioni e costumi fermi come principi irrevocabili, e che, pertanto, ci riusciva assai difficile assimilare o farci assimilare dall’ambiente genovese. Un’altra ipoteca che gravava su noi era rappresentata da quella particolare atmosfera deformante di ogni realtà che fu propria del fascismo. L’ottimismo ufficiale del regime non ammetteva e non tollerava drammi economici familiari. Noi che di fascismo non eravamo contagiati avvertivamo assai bene l’incolmabile frattura tra la realtà e l’ottimismo ufficiale, ma penso che quest’ultimo, in fondo, finisse, anche se inconsciamente, per legittimare in qualche modo ciò che giudicavamo fosse dignità e decoro. Tutti questi e altri elementi erano all’origine di quella fase di isolamento della nostra famiglia che avrebbe potuto concludersi quando, qualche anno più tardi, l’impiego di Paolo e di Maria Luisa e infine il mio, oltre quello di Roberto, ristabilì in parte la situazione.

…Paolo fu assunto dalla ditta Fratelli Schiavetti, Roberto dalla ditta Terracini e Maria Luisa dapprima nello studio dell’avvocato Greco e successivamente in quello degli avvocati Sciarretta e Medina. Nel 1941 io stessa occupai il posto lasciato vacante nella S.A.I.C., di proprietà dei signori Morelli e Ginepro, da un ebreo tedesco che era stato rinchiuso in un campo di concentramento a Montefiascone. Ognuno di noi nel domandare lavoro era tenuto a declinare la propria qualità di ebreo, ma essa – salvo qualche caso di «prudenza» – non provocava se non aperte professioni antifasciste fatte sovente col tono di chi ha tardato troppo a trovare qualcuno con cui sfogare un sentimento a lungo represso, sicuro di potersene fidare. Se il dramma degli ebrei italiani anche dopo l’8 settembre 1943 non attinse le proporzioni tragiche altrove subite dai nostri correligionari ciò fu dovuto alla meravigliosa e umana coscienza del nostro popolo. E io ritengo che proprio la mia testimonianza possa essere più preziosa di altre perché nel corso dell’anno che vivemmo alla macchia, assillati e tormentati dall’incubo, sempre più vicini alla nostra tremenda fine, ho potuto conoscere e valutare il significato di ciò che vado dicendo. Ricordo un povero contadino di Sampierdicanne, nei pressi di Chiavari, dove ci eravamo rifugiati, ripetere che l’umanità non si divide in ebrei e non ebrei ma in ricchi e poveri, tra chi possiede tutto e chi non possiede nulla, tra chi lavora la terra e non ne gode i frutti e chi non la lavora e si appropria della mietitura e della vendemmia. Queste parole di antica saggezza mi sono rimaste nel cuore e sono certa che esse racchiudono l’estrema verità dei popoli. Io, ebrea italiana, ne ho sperimentato il valore quando per me la mia sola esistenza rappresentava un reato da punire con la morte.


estratto da: http://www.senzapaura.org da «Diario de l mese», 24 gennaio 2003.

giovedì 22 gennaio 2015

Piera Sonnino - Questo è Stato 
estratto 1

Il giorno dell’arresto, la deportazione, la nostra ultima lunga notte nella grande baracca di smistamento di Auschwitz: ricordo il pianto di mia madre continuo e ininterrotto di povera donna straziata. Paolo si era laureato in economia e commercio nel 1940. Per poter studiare aveva dovuto lavorare e, in particolare, dopo la promulgazione delle leggi razziali, le occupazioni che riuscì a trovare furono sempre saltuarie e mal retribuite. La sua laurea fu il risultato di lunghi sacrifici e di un carattere serio e tenace. Io credo che Paolo, pur essendo il primogenito e quello che più di tutti godette di un più lungo periodo di tranquillità, sia morto senza aver conosciuto l’amore. In casa nostra era proibito parlare di certi argomenti, e l’amore era tra questi, ma io ricorderei qualche episodio o qualche accenno riguardanti Paolo. E invece l’ho nella memoria assorbito totalmente dapprima dal lavoro e dallo studio e poi dall’ansia comune. L’ansia che anche a noi, suoi fratelli e sue sorelle, negò la giovinezza e l’amore e perfino di poter sognare un avvenire. Dal 1938 in poi, per cinque anni, noi vivemmo in un tempo senza futuro, un oscuro presente sul quale gravava, confuso e indistinto, l’incubo che ci ghermì dopo l’8 settembre 1943. Mio fratello Roberto a 15 anni dovette interrompere gli studi e occuparsi. Quanto mio padre guadagnava non era allora, come in genere non lo fu mai, sufficiente a garantire alla nostra famiglia, dal 1925 composta di otto persone, un livello di vita anche modesto. La prima retribuzione di Roberto fu di duecento lire mensili. Roberto era un giovane pratico, allegro, amante della vita. A mano a mano che nostro padre e nostra madre reagivano sempre meno all’incubo che premeva attorno a noi, egli divenne se non il perno colui che più di ogni altro sapeva sobbarcarsi le responsabilità della famiglia. Fu Roberto a prendere iniziative che tante volte ci procurarono il pane e ci tolsero da situazioni angosciose. Egli era tutt’altro che un contemplativo e se avesse potuto ultimare gli studi probabilmente non avrebbe ottenuto lo stesso successo di Paolo e non certo perché avesse meno intelligenza. Aveva un carattere poco metodico, estroso, dell’uomo dalla personalità ricca di buon senso e di idee. Giorgio fu l’ultimo nato. Dall’età della ragione in poi crebbe nell’incubo. Gli ultimi nove mesi della sua esistenza li visse chiuso tra le mura dell’appartamento di via Montallegro nel rione di San Martino dove avevamo trovato alloggio e rifugio. Per nove lunghi mesi fu segregato dalla società e dalla vita. Era divenuto nervoso fino all’esasperazione e durante i bombardamenti aerei veniva colto da crisi che lo lasciavano esausto. Noi, sue sorelle, lo provvedevamo di libri: ci chiedeva in continuazione volumi di storia in particolare del primo Risorgimento. Era divenuto un profondo conoscitore delle biografie di Mazzini e di Garibaldi. Negli ultimi tempi aveva cominciato a mandare a memoria perfino un dizionario e al mattino quando veniva ad aiutarci in cucina ci chiedeva il significato delle parole più astruse e meno correnti che riusciva a trovare, divertendosi a metterci nell’imbarazzo. Gli fornivamo l’occasione per lunghe dissertazioni che nascevano dal bisogno che era in lui, e che noi comprendevamo, di sentirsi vivo attraverso le sue stesse parole. Ma anche quelli erano rari momenti di distensione. Giorgio, minuto per minuto, giorno per giorno, visse nove mesi di terrore. Egli fu tra noi quello che per primo entrò nella nera anticamera della morte e quando la morte giunse egli cedette senza resisterle. Maria Luisa era la sorella maggiore. Una bellissima ragazza, dal carattere assai somigliante per molti aspetti a quello di Roberto. Quando fummo ad Auschwitz e più tardi, divisi dai nostri parenti, a Belsen e a Braunschweig, ella divenne per Bice e per me come una madre. A distanza di quindici anni, talvolta, quando attorno a me regna il silenzio, mi pare di riudire la sua voce, esile e arrochita, levarsi nella baracca, quando cantava per Bice e me, per tenere desta in noi l’assurda speranza di sopravvivere. Una sera, eravamo appena tornate alla stalla di Braunschweig che dividevamo in poche ebree italiane con settecento correligionarie ungheresi, una sorvegliante venne a leggere un elenco di noi deportate. Tra esse vi era quello di Maria Luisa. Nostra sorella si incolonnò con le altre chiamate. Bice e io credevamo che fossero destinate a un turno supplementare di lavoro come spesso accadeva. Non fu dato a nostra sorella il tempo di salutarci. Non la rivedemmo più. Bice, più di ogni altro figlio, rassomigliava a nostra madre. Soprattutto nel carattere. Era la penultima nata. Una bambina ancora ad Auschwitz, a Belsen, a Braunschweig. Per quattro giorni il suo cadavere rimase abbandonato su una panca di legno e alla fine era scomparso sotto la neve. Mio padre Ettore Sonnino e mia madre Giorgina Milani, all’età rispettivamente di sessantaquattro e di cinquantotto anni, furono uccisi nelle camere a gas di Birkenau il 28 ottobre 1944. Paolo, all’età di ventisette anni e Roberto, all’età di ventisei anni, furono uccisi nel mese di novembre. Giorgio, all’età di diciannove anni, fu ucciso pochi giorni dopo i suoi fratelli. Maria Luisa all’età di venticinque anni fu uccisa a Flossenburg il 20 marzo 1945. Bice fu uccisa a Braunschweig nella notte tra il 15 e il 16 gennaio 1945. Aveva ventun anni. Il numero che la morte aveva impresso sul mio braccio, e che ancora porto, è: A26699. Nel settembre del 1950, dopo cinque anni di case di cura e di sanatori, io sola, dell’intera mia famiglia, sono tornata alla vita.

estratto da: http://www.senzapaura.org da «Diario de l mese», 24 gennaio 2003.

mercoledì 21 gennaio 2015

Piera Sonnino
«Questo è stato»


 «Genova, estate 1926». È la sola foto rimasta dei sei fratelli Sonnino. Da sinistra Paolo,
ucciso ad Auschwitz a 27 anni, Maria Luisa uccisa a Flossenburg a 25 anni, Giorgio morì ad
Auschwitz a 19 anni, Roberto deceduto in luogo e data ignoti, Bice, morta a Braunschweig
a 21 anni, e Piera Sonnino, che ritornò dai campi e morì a Genova l'11 maggio 1999.


estratto da: http://www.senzapaura.org da «Diario de l mese», 24 gennaio 2003.

lunedì 19 gennaio 2015

I PONTI DI MADISON COUNTY.


“I vecchi sogni erano bei sogni... Non si sono avverati, comunque li ho avuti."










 “Non sono sicuro di averti dentro di me, né di essere dentro di te, e neppure di possederti replicò lui. E in ogni caso, non è al possesso che aspiro. Credo invece che siamo entrambi dentro un altro essere che abbiamo creato, e che si chiama 'noi'.” 

domenica 18 gennaio 2015

“Annie”   18/01/2015

Come è possibile rigirare sempre sullo stesso argomento e non trovare una soluzione?
Non aveva mai capito come le persone riuscissero a ricordare delle frasi che avevano letto su un libro o su di un articolo e a citarlo al momento opportuno…fino a che non era capitato anche a lei di cominciare a ricordare delle frasi, solo perché l’avevano colpita e allora si domandava ma allora prima non la colpiva nulla di quello che leggeva?
Eppure lei ricordava di si ma non le restava niente impresso, quando le frasi avevano cominciato ad entrarle nella mente?
Quando aveva cominciato a cercare come delle risposte in quello che leggeva o più semplicemente alcune frasi le si erano stampate a fuoco nella mente perché in quel momento riflettevano esattamente quello che lei provava e che non riusciva a mettere insieme con le parole; trovare la perfetta sintesi di ciò che sentiva in poche parole, le sembrava una cosa straordinaria, una cosa che la esaltava…o meglio che la faceva sentire qualche volta ancora viva.

“Non è finita, finché non è veramente finita” cit. Gabriele Romagnoli.

sabato 17 gennaio 2015

SPIRITO DI CONTRADDIZIONE.

Se fino a un minuto prima implorava per farsi aprire una porta, nel momento stesso in cui gliela apri, lui come a voler dire “anche questa volta non hai capito cosa volevo” si gira e se ne va.


Se gli vuoi fare una carezza…solo quando decidono loro, tranne poi accucciarsi il più vicino possibile a te, quando fa freddo…e allora si puoi accarezzarli.

Se state giocando decide sempre lei quanto deve durare e se si è stufata…tre strisce non ve le leva nessuno.
E quindi…

Vieni sul mio cuore innamorato mio bel gatto
trattieni gli artigli della zampa e lasciami
sprofondare nei tuoi occhi belli misti d’agata e di metallo.
La tua voce sempre profonda e ricca
non ha bisogno di parole per dire le più lunghe frasi
tutto in te, come in un angelo è sottile ed armonioso.


Questo il suo incanto e il suo segreto.

venerdì 16 gennaio 2015

LA COVA

E' SEMPRE DIFFICILE VENIRE AL MONDO. GLI UCCELLI FANNO FATICA AD USCIRE DALL'UOVO... BISOGNA TROVARE IL PROPRIO SOGNO PERCHE' LA STRADA DIVENTI FACILE.

Hermann Hesse

Forza, forza...

giovedì 15 gennaio 2015

TAPPETO DI FRAGOLE


Qui trafitto Sulla terra Steso Me ne sto
Resto fermo tra le onde
Mentre penso a te
Fuoco rosso
Luce
E rondine
Tra le foglie soffia un vento molto debole
Nel frettempo un fiore sta x nascere

Eccoci qua a guardare le nuvole
Su un tappeto di fragole
Come si fa
A spiegarti
Se mi agito
E mi rendo ridicolo
Tu parlami
Stringimi
E poi fingi di amarmi

In una foto un po' ingiallita
È tutto quello che ho
È non capisco se ridevi o no
Qui trafitto
Sulla terra
Steso 
Me ne sto aspettando di volare un po'

Eccoci qua a guadare le nuvole
Su un tappeto di fragole
Come si fa
A spiegarti
Se mi agito
E mi rengo ridicolo tu

Oh...

Eccoci qua a guardare le nuvole
Su un tappeto di fragole
Come si fa
A spiegarti
Che mi agito
E rendo ridicolo
Tu parlami
Stringimi
Oppure fingi di amarmi