Piera Sonnino - Questo è Stato
estratto 5
… Bice si era
assai indebolita e, fin dagli ultimi giorni della nostra permanenza a Belsen,
era stata colta da un’acutissima dissenteria. Maria Luisa era quella che più
resisteva. Fisicamente era dimagrita e il petto e i fianchi le erano spariti,
ma il suo cervello e i suoi nervi erano ancora sufficientemente saldi. Molte
volte si sforzava di cantare per noi, di infonderci speranza e fiducia. Era più
che nostra sorella. Bice e io finimmo per vedere in lei nostra madre. Al
mattino, mentre andavamo al lavoro, tentava perfino di distrarci indicandoci
ora un palazzo, ora un albero, ora un oggetto qualsiasi. Molte volte i passanti
ci tiravano sassi e qualcuno si spinse fino in mezzo a noi per sputarci
addosso. Ma esperimentammo anche l’altro aspetto, quello reale, quello non
corrotto dell’hitlerismo, della Germania. Un mattino, dopo qualche ora di
lavoro, Maria Luisa fu colta da malore. Cadde tra le macerie che stava spalando.
Bice e io disperate, per il timore che la neve e il freddo aggravassero le
condizioni di nostra sorella, l’aiutammo a rialzarsi e la ricoverammo in un
portone. Eravamo lì da qualche minuto divisi tra l’angoscia che le sorveglianti
scoprissero la nostra assenza e l’ansia ancor più grave che Maria Luisa
peggiorasse, quando il portone che avevamo socchiuso si aprì. Entrò una donna
tedesca, un’anziana signora con una corona di capelli bianchi attorno al viso,
che reggeva un thermos. Ci fece segno che era per Maria Luisa. Il tè caldo
rianimò nostra sorella. La signora cavò da una tasca del grembiule, che portava
sotto il pesante cappotto, un po’ di pane e ce lo divise in tre porzioni. Se
n’andò con un’ultima occhiata in cui ritrovammo qualcosa di ciò che avevamo perduto.
… Dopo la partenza di Maria Luisa, Bice cominciò a
peggiorare. Piangeva spesso e si lamentava. Andava perdendo le forze a vista
d’occhio. I suoi diciotto anni parevano essersi contratti, quasi accartocciati,
come una foglia d’albero, staccata verde, nella polvere al sole. Andava
divenendo sempre di più una creatura senza età, pallida di quel pallore bianco,
quasi cartaceo, dei «subumani». Era divenuta esile, si muoveva con lentezza,
come se ogni gesto le costasse infinita fatica. Fino a quando ci fu Maria Luisa
eravamo in due ad aiutarla: poi rimasi sola. Rimasi sola a trascinarla lungo la
strada che conduceva al lavoro, sola a difenderla dalle sorveglianti, sola nel
tentativo di evitarle le maggiori fatiche, sola a sforzarmi di trattenere in
lei la vita. E anch’io mi scoprivo a compiere il gesto più elementare come se
fosse terribilmente complicato e faticoso.
... La sera del 13 gennaio Bice si lamentò più del solito
sulla via del ritorno. La dissenteria era continua, inarrestabile; non esisteva
posizione che la diminuisse almeno per un attimo. Sul lavoro, per la strada,
sulla paglia. Quella sera mia sorella, dopo la prima cucchiaiata di broda, ebbe
un conato di vomito, respinse la gamella e andò a gettarsi sul suo putrido
giaciglio. Le rimasi vicina fino a quando le ungheresi non mi ordinarono di
filare via. Avevo intenzione di rimanere desta per udire se Bice si lamentava,
ma ero così spossata che caddi subito in un sonno profondo. All’alba, come al
solito, le sorveglianti ci destarono urlando e agitando i bastoni. Accorsi
presso Bice: aveva gli occhi aperti e fissava il soffitto. Ebbi la sensazione
che non avesse dormito. Tentai di sollevarla perché si alzasse. Le sorveglianti
sul piazzale davano già l’avviso dell’appello. Bice cercò di agevolare il mio
sforzo ma ricadde pesantemente. La spronai. Fu inutile. Corsi disperata fuori
dalla stalla. Una sorvegliante mosse minacciosamente il bastone verso di me.
Piangevo e gridavo per farle comprendere che Bice stava troppo male per poter
lavorare quel giorno. La sorvegliante si gettò su di me come una furia. Mi
picchiava e io continuavo a gridare, mi batteva sul capo, sul volto, sul petto,
e io continuavo a piangere, a gridare, non avvertivo il dolore delle percosse,
non sentivo nulla, non ne ho traccia in me, ho soltanto l’angoscia che provavo
nella previsione che non fossi riuscita a farmi capire, che la sorvegliante
entrasse nella stalla e battesse anche Bice. Riuscii ad afferrare la donna per
un braccio e a trascinarla verso la stalla. La sorvegliante finì per intuire
ciò che dicevo. Si chinò su Bice, le dette una rapida occhiata, poi, dopo un
moto di disgusto, mi cacciò fuori. Mia sorella rimase stesa sulla paglia mentre
io, incolonnata con le altre, andavo a lavorare. La giornata fu di una
lunghezza lancinante. È difficile trovare parole per descrivere come la misura
del tempo sia semplicemente una convenzione: come esista dentro di noi un tempo
che può restringersi e dilatarsi all’infinito sfuggendo a ogni metro. Quando
venne la sera ero più spossata dall’attesa che dalla fatica. Bice era nella
stessa posizione in cui l’avevo lasciata al mattino. Vicino a lei vi era una
gamella piena a metà di broda e un pezzo di pane. Appena mi vide entrare mi
indicò l’una e l’altro con un piccolo cenno del capo. Aveva la testa avvolta
nel suo cappuccetto blu. La guardai e ansia e speranza per un attimo mi
cozzarono dentro. Bice aveva il volto disteso, gli occhi quasi limpidi. Le
chiesi come stava. Per la prima volta, dopo molti giorni, mi rispose che stava
benissimo. Chiesi a un’ungherese il permesso di dormire accanto a mia sorella.
Non ebbi neanche risposta. La donna cadde quasi di schianto sul proprio
giaciglio e chiuse gli occhi. Cercai di resistere al sonno. Sapevo che non
avrei dovuto dormire. Ma la stanchezza era più forte della volontà. Il sonno
era soltanto un rapidissimo chiudere e aprire gli occhi. La notte, dalle
tenebre all’alba, durava un attimo. Mi destai al grido delle sorveglianti. Bice
era immobile ancora con gli occhi aperti in quella strana fissità. La paglia
sotto di lei e attorno a lei era marcita per la dissenteria. Con un filo di
voce insistette a dirmi che stava benissimo. Pareva avesse raggiunto uno stadio
in cui non c’era più sofferenza. Al termine dell’appello mi prosternai dinanzi
alla sorvegliante che il giorno prima mi aveva battuto, le chiesi che mi
facesse rimanere accanto a mia sorella. Ripetevo la parola «morte», la sola che
avessi appreso in tedesco. Ero inginocchiata dinanzi a quella donna, col capo
piegato fino a toccare con la fronte la terra. Il bastone si abbatté sulle mie
spalle e avvertii una fitta al petto. Mamma, mamma..., chiamavo. Mamma,
mamma... aiutami. Bice sta morendo, fa che questa donna capisca, che abbia un
briciolo di umanità. Ero ancora curva così, prona a terra, quando udii il passo
della colonna che si allontanava. Corsi come una pazza accanto a Bice. Bice non
mi chiese neppure il motivo per cui non ero andata a lavorare. Le presi la mano
e gliela strinsi. Un poco più tardi pensai che sarebbe stato bene ripulire il suo
giaciglio e lavarla. L’afferrai con amore sotto le ascelle e stavo per
sollevarla quando un lungo rantolo mi paralizzò. Distesi nuovamente Bice e le
ripresi la mano. Rimasi così tutto il giorno, senza muovermi, senza parlare,
con l’assurda speranza di trasmettere calore e vita a quel corpo. Sapevo ciò
che stava per accadere, ma non volevo crederci. Bice era l’ultimo solido
frammento del passato che mi rimaneva. Avvertivo con crescente paura i sempre
più lunghi periodi di assenza della mia mente, gli abbandoni frequenti, la
volontà di vivere sempre più fievole. Conoscevo quei sintomi perché spesso
altre ne avevano parlato e sapevo che cosa significassero. Ma finché Bice fosse
rimasta con me io sapevo anche che non mi sarei lasciata sopraffare.
…Quando tornarono le ungheresi fui costretta a lasciare mia
sorella. Io mi vergogno di scriverlo, ma anche quella sera, nonostante avessi
impegnato tutte le mie forze per resistere, mi addormentai. Mi destai
all’improvviso oppressa da una sensazione di terrore. L’alba era vicina.
Chiamai la signora Foà, la pregai di andare a vedere come stesse Bice. La
signora si alzò a fatica, ancora assonnata. Scavalcò il corpo delle altre donne
che, nel sonno, si lamentavano e raggiunse il giaciglio di Bice. Si sporse su
di esso e rimase un attimo immobile. La vidi stendere una mano per toccare mia
sorella. Chiusi gli occhi. Mamma, mamma... imploravo. La signora Foà mi tornò
vicino e mi posò una mano sul capo. È morta, disse con un soffio. Accanto a
Bice assistetti al levarsi di un grigio giorno di neve. Nel corso della mattina
una «kapò» venne a chiedermi le generalità di Bice. Annotò tutto con estrema
diligenza su di un registro. Se n’andò senza dare un’occhiata a quel corpo
senza vita. Nel pomeriggio vennero a prendere il corpo di Bice. Lo portarono
fuori dalla stalla e lo depositarono su una panca accanto alla porta della
latrina. Nevicava. Gettarono su mia sorella un sacco che le coprì a mala pena
il ventre appiattito. Il volto, nella corona blu del cappuccetto, rimase
esposto alla neve e così le mani e le gambe. L’indomani mattina, prima
dell’appello, nell’ora in cui ci era consentito andare nella latrina, passai
accanto a Bice. Vi ripassai la sera e l’indomani e poi la sera e ancora il
giorno dopo e un altro giorno ancora. Dopo quattro giorni ben poco emergeva più
di Bice dalla neve. È da quel momento che i miei ricordi si fanno confusi,
staccati, impersonali. Il subcosciente li trattiene come un male che cova
dentro di me. So che dovrei liberarmene ma non ne sono capace.
estratto da: http://www.senzapaura.org da «Diario de l mese», 24 gennaio 2003.