mercoledì 27 gennaio 2016

GIORNATA DELLA MEMORIA 27/Gennaio/2016

Estratto dal manoscritto: "Questo è Stato", di Piera Sonnino, sopravvissuta alla Shoah, apparso per la prima volta sul mensile Diario nel 2003, è una storia fra le tante che negli anni ho letto o ascoltato sull'argomento che mi è rimasta dentro,  forse perché provai ad immedesimarmi con la Sig.ra Piera quando racconta della morte della sorella, del suo corpo abbandonato ricoperto dalla neve, del suo senso d'impotenza, confesso, la catarsi è durata un'attimo sono dovuta uscirne immediatamente allora e con il passare degli anni rileggerlo acquista sempre di più un peso.


estratto da: http://www.senzapaura.org da «Diario de l mese», 24 gennaio 2003.

Dopo la partenza di Maria Luisa, Bice cominciò a peggiorare. Piangeva spesso e si lamentava. Andava perdendo le forze a vista d’occhio. I suoi diciotto anni parevano essersi contratti, quasi accartocciati, come una foglia d’albero, staccata verde, nella polvere al sole. Andava divenendo sempre di più una creatura senza età, pallida di quel pallore bianco, quasi cartaceo, dei «subumani». Era divenuta esile, si muoveva con lentezza, come se ogni gesto le costasse infinita fatica. Fino a quando ci fu Maria Luisa eravamo in due ad aiutarla: poi rimasi sola. Rimasi sola a trascinarla lungo la strada che conduceva al lavoro, sola a difenderla dalle sorveglianti, sola nel tentativo di evitarle le maggiori fatiche, sola a sforzarmi di trattenere in lei la vita. E anch’io mi scoprivo a compiere il gesto più elementare come se fosse terribilmente complicato e faticoso. Mi scoprivo senza più carne, pelle tesa sulle ossa. Ciò che più mi riusciva di fare era di starle
accanto, di non perderla mai di vista. Soffrivo alla sera perché dormivamo separate. Bice in mezzo alle ungheresi, a fianco di un traliccio di legno che un tempo aveva contenuto una stufa o arnesi da lavoro, e io addossata a una parete della stalla. La sera del 13 gennaio Bice si lamentò più del solito sulla via del ritorno. La dissenteria era continua, inarrestabile; non esisteva posizione che la diminuisse almeno per un attimo. Sul lavoro, per la strada, sulla paglia. Quella sera mia sorella, dopo la prima cucchiaiata di broda, ebbe un conato di vomito, respinse la gamella e andò a gettarsi sul suo putrido giaciglio. Le rimasi vicina fino a quando le ungheresi non mi ordinarono di filare via. Avevo intenzione di rimanere desta per udire se Bice si lamentava, ma ero così spossata che caddi subito in un sonno profondo. All’alba, come al solito, le sorveglianti ci destarono urlando e agitando i bastoni. Accorsi presso Bice: aveva gli occhi aperti e fissava il soffitto. Ebbi la sensazione che non avesse dormito. Tentai di sollevarla perché si alzasse. Le sorveglianti sul piazzale davano già l’avviso dell’appello. Bice cercò di agevolare il mio sforzo ma ricadde pesantemente. La spronai. Fu inutile. Corsi disperata fuori dalla stalla. Una sorvegliante mosse minacciosamente il bastone verso di me. Piangevo e gridavo per farle comprendere che Bice stava troppo male per poter lavorare quel giorno. La sorvegliante si gettò su di me come una furia. Mi picchiava e io continuavo a gridare, mi batteva sul capo, sul volto, sul petto, e io continuavo a piangere, a gridare, non avvertivo il dolore delle percosse, non sentivo nulla, non ne ho traccia in me, ho soltanto l’angoscia che provavo nella previsione che non fossi riuscita a farmi capire, che la sorvegliante entrasse nella stalla e battesse anche Bice. Riuscii ad afferrare la donna per un braccio e a trascinarla verso la stalla. La sorvegliante finì per intuire ciò che dicevo. Si chinò su Bice, le dette una rapida occhiata, poi, dopo un moto di disgusto, mi cacciò fuori. Mia sorella rimase stesa sulla paglia mentre io, incolonnata con le altre, andavo a lavorare. La giornata fu di una lunghezza lancinante. È difficile trovare parole per descrivere come la misura del tempo sia semplicemente una convenzione: come esista dentro di noi un tempo che può restringersi e dilatarsi all’infinito sfuggendo a ogni metro. Quando venne la sera ero più spossata dall’attesa che dalla fatica. Bice era nella stessa posizione in cui l’avevo lasciata al mattino. Vicino a lei vi era una gamella piena a metà di broda e un pezzo di pane. Appena mi vide entrare mi indicò l’una e l’altro con un piccolo cenno del capo. Aveva la testa avvolta nel suo cappuccetto blu. La guardai e ansia e speranza per un attimo mi cozzarono dentro. Bice aveva il volto disteso, gli occhi quasi limpidi. Le chiesi come stava. Per la prima volta, dopo molti giorni, mi rispose che stava benissimo. Chiesi a un’ungherese il permesso di dormire accanto a mia sorella. Non ebbi neanche risposta. La donna cadde quasi di schianto sul proprio giaciglio e chiuse gli occhi. Cercai di resistere al sonno. Sapevo che non avrei dovuto dormire. Ma la stanchezza era più forte della volontà. Il sonno era soltanto un rapidissimo chiudere e aprire gli occhi. La notte, dalle tenebre all’alba, durava un attimo. Mi destai al grido delle sorveglianti. Bice era immobile ancora con gli occhi aperti in quella strana fissità. La paglia sotto di lei e attorno a lei era marcita per la dissenteria. Con un filo di voce insistette a dirmi che stava benissimo. Pareva avesse raggiunto uno stadio in cui non c’era più sofferenza. Al termine dell’appello mi prosternai dinanzi alla sorvegliante che il giorno prima mi aveva battuto, le chiesi che mi facesse rimanere accanto a mia sorella. Ripetevo la parola «morte», la sola che avessi appreso in tedesco. Ero inginocchiata dinanzi a quella donna, col capo piegato fino a toccare con la fronte la terra. Il bastone si abbatté sulle mie spalle e avvertii una fitta al petto. Mamma, mamma..., chiamavo. Mamma, mamma... aiutami. Bice sta morendo, fa che questa donna capisca, che abbia un briciolo di umanità. Ero ancora curva così, prona a terra, quando udii il passo della colonna che si allontanava. Corsi come una pazza accanto a Bice. Bice non mi chiese neppure il motivo per cui non ero andata a lavorare. Le presi la mano e gliela strinsi. Un poco più tardi pensai che sarebbe stato bene ripulire il suo giaciglio e lavarla. L’afferrai con amore sotto le ascelle e stavo per sollevarla quando
un lungo rantolo mi paralizzò. Distesi nuovamente Bice e le ripresi la mano. Rimasi così tutto il giorno, senza muovermi, senza parlare, con l’assurda speranza di trasmettere calore e vita a quel corpo. Sapevo ciò che stava per accadere, ma non volevo crederci. Bice era l’ultimo solido frammento del passato che mi rimaneva. Avvertivo con crescente paura i sempre più lunghi periodi di assenza della mia mente, gli abbandoni frequenti, la volontà di vivere sempre più fievole. Conoscevo quei sintomi perché spesso altre ne avevano parlato e sapevo che cosa significassero. Ma finché Bice fosse rimasta con me io sapevo anche che non mi sarei lasciata sopraffare. Ma erano rapidi lampi quelli che si accendevano in me per la mia sorte: ero troppo assorbita in quella di Bice. Rivedevo mia sorella bambina, la sorprendevo ancora una volta a crescere seria e tranquilla come la nostra mamma, incapace di manifestare un qualsiasi risentimento e di nutrirlo, buona. Bice era il frammento di un passato di ansie e di paura, ma anche di affetti. Andavamo a scuola assieme e ci chiamavano «le sorelle carciofo», un nomignolo che qualche volta ci faceva ridere. Carciofo perché eravamo punte e aculei. Dicevamo alle compagne di classe: ci piacerebbe invitarvi a casa, ma come possiamo fare? Abbiamo tutto all’aria. Stiamo facendo ordine. Un ordine che, per essere fatto, aveva bisogno di un intero anno scolastico. Se qualcuna insisteva diventavamo, senza volerlo, sgarbate. La cattiva sorte di mio padre e poi, dopo il 1938, il suo tracollo e il suo precoce invecchiamento e noi, sue figlie, a sforzarci di distrarlo, di ridestargli lo spirito allegro di un tempo: mille e mille immagini della nostra casa, della nostra famiglia, erano attorno a me e a Bice quel giorno. E forse Bice non le ricordava come immagini ma le viveva come realtà. Forse lei era tornata a casa da un lungo viaggio e aveva bussato alla porta e mamma era andata ad aprire e noi tutti le eravamo andati incontro per abbracciarla e baciarla. Nessuno di noi parlava di persecuzioni, di fughe, il cielo era azzurro e la luce azzurra e verde irrompeva dal giardino della nostra casa. Giorgio ballava con Bice e noi battevamo le mani e Bice non ricordava più ciò che era accaduto. E neanche di essere partita e di essere tornata. Una lacuna del tempo si rinchiudeva, se ne saldavano i lembi scacciandone il male, e per Bice forse la vita riprendeva dagli anni in cui i messaggeri dell’incubo non erano ancora arrivati fino a noi. Forse per questo Bice mi rispondeva di stare benissimo e rimaneva sdraiata senza più lamentarsi e col volto, bianco come la carta, disteso. Quando tornarono le ungheresi fui costretta a lasciare mia sorella. Io mi vergogno di scriverlo, ma anche quella sera, nonostante avessi impegnato tutte le mie forze per resistere, mi addormentai. Mi destai all’improvviso oppressa da una sensazione di terrore. L’alba era vicina. Chiamai la signora Foà, la pregai di andare a vedere come stesse Bice. La signora si alzò a fatica, ancora assonnata. Scavalcò il corpo delle altre donne che, nel sonno, si lamentavano e raggiunse il giaciglio di Bice. Si sporse su di esso e rimase un attimo immobile. La vidi stendere una mano per toccare mia sorella. Chiusi gli occhi. Mamma, mamma... imploravo. La signora Foà mi tornò vicino e mi posò una mano sul capo. È morta, disse con un soffio. Accanto a Bice assistetti al levarsi di un grigio giorno di neve. Nel corso della mattina una «kapò» venne a chiedermi le generalità di Bice. Annotò tutto con estrema diligenza su di un registro. Se n’andò senza dare un’occhiata a quel corpo senza vita. Nel pomeriggio vennero a prendere il corpo di Bice. Lo portarono fuori dalla stalla e lo depositarono su una panca accanto alla porta della latrina. Nevicava. Gettarono su mia sorella un sacco che le coprì a mala pena il ventre appiattito. Il volto, nella corona blu del cappuccetto, rimase esposto alla neve e così le mani e le gambe. L’indomani mattina, prima dell’appello, nell’ora in cui ci era consentito andare nella latrina, passai accanto a Bice. Vi ripassai la sera e l’indomani e poi la sera e ancora il giorno dopo e un altro giorno ancora. Dopo quattro giorni ben poco emergeva più di Bice dalla neve. È da quel momento che i miei ricordi si fanno confusi, staccati, impersonali. Il subcosciente li trattiene come un male che cova dentro di me. So che dovrei liberarmene ma non ne sono capace. Non sono capace di farli riaffiorare alla coscienza. Mi rammento che alla fine di marzo con la
signora Foà, la signora Noemi Jona, l’ebrea di Trieste e un gruppo di ungheresi fui trasferita in un altro campo. A Berndorf [11]. Non sono sicura che sia questa l’esatta dizione del nome: è un nome che ho udito senza averlo mai veduto scritto. A Berndorf vi era una fabbrica sotterranea di accessori per aeroplani. Nelle gallerie l’aria era mite, faceva caldo; dopo il gelo sofferto durante i lavori alle macerie di Braunschweig, quel tepore ci accolse come un’estate. Ne ho un ricordo animalesco, come di un godimento cui la mente non partecipò in alcuna misura. La signora Foà fu addetta a un turno diverso dal mio. Rimasi con la triestina: due italiane tra centinaia di ungheresi. La triestina aveva un aspetto spaventoso tanto era magra. Ricordo che una sera parve cedesse e rinunciasse a vivere. Quando ciò accadeva la morte era vicina. Mi si strinse accanto e mi sussurrò all' orecchio che era stata arrestata a causa della sua matrigna che l’aveva denunciata. Bisogna che mio padre lo sappia, ripeteva. Bisogna che lo sappia. L’indomani si destò smarrita e riprese la solita esistenza. Dopo qualche giorno scomparve. Non la vidi più. In quel periodo, in un banale incidente, mi si ruppero gli occhiali. Fu come se divenissi cieca. Il mondo si restrinse attorno a me. Si trasformò in forme nebbiose ed evanescenti, ovunque minacce e pericoli. Ero sola e cieca. Nella mia mente a questo punto vi è un vuoto che non tento neppure di colmare perché so che sarebbe impossibile. Il vuoto si interrompe. Siamo incolonnate e attraversiamo Berndorf in una corsa pazza. Ci spingono su un vagone. Ne rinchiudono la porta. Il treno si muove. Non ho il senso della direzione. Ancora una volta mi manca. Quando il treno si ferma e la porta viene riaperta intravedo confusamente alcune di noi prendere dei corpi e farli rotolare giù. Il fatto si ripete sovente. Mi desto su qualcosa di morbido e di duro a un tempo. Tocco. Sono gambe, è un ventre, è un letto. Un volto. Gelido. Ho dormito su una morta. Ancora vuoto. Cori di grida come lunghi e impetuosi ululati di vento. Da ora in avanti non so più se le immagini della mia memoria si riferiscono a frazioni di realtà – l’intera realtà non è pensabile che possa essere stata registrata – o ad allucinazioni. Il convoglio si arresta ancora una volta, bisogna scendere, aiutare chi non può scendere: due ungheresi mi prendono per le braccia, scorgo poco distante la massa confusa delle compagne ammassate su uno spiazzo, riprendo coscienza e mi trovo bocconi con la bocca nella polvere, la sete mi tormenta, mi guardo attorno, lo spiazzo è diventato una pianura senza confine, sono sola, mi alzo gridando terrorizzata e comincio a correre, una botte d’acqua piovana, mi chino a bere, l’acqua è sporca, mi assilla la paura che possa farmi male, ma continuo a bere, poi riprendo a correre, un muro dinanzi a me, una baracca, qualcuno che mi distende su un pagliericcio e poi più niente.

Ne ho già scritto su questo blog l'anno scorso dedicando tutta la settimana della memoria con estratti da questo racconto,

piera-sonnino-questo-e-stato-estate-1 estratto

piera-sonnino-questo-e-stato-estratto-2 estratto

piera-sonnino-questo-e-stato-estratto-3 estratto

piera-sonnino-questo-e-stato-estratto-4 estratto

piera-sonnino-questo-e-stato-estratto-5 estratto

piera-sonnino-questo-e-stato-estratto-6 estratto

piera-sonnino-questo-e-stato-estratto-7 estratto

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